Cesare Pavese nella sua Torino, tra la sua casa, le camere d’albergo, l’Einaudi e le sale cinematografiche che amava. Una narrazione che inizia dall’ultimo giorno della sua vita, il 26 agosto 1950 quando scelse di uccidersi, per ripercorrere a ritroso la sua vita di intellettuale, scrittore, poeta e curatore di manoscritti di altri autori che curava, come si dice nel film: “con un’attenzione affettuosa”.
Il documentario in questione è Il mestiere di vivere di Giovanna Gagliardo, presentato alla 42esima edizione del Torino film festival dove abbiamo intervistato l’autrice che ci rivela il suo amore giovanile per Pavese che poi ha riscoperto oggi. “Ritrovarlo è stata una folgorazione”. Uno scrittore già molto visivo che aveva portato in Italia la poesia narrativa di tanti autore americani come Walt Whitman.
Nel film la regista lavora per dare punte di colore al bianco e nero e rendere molto affascinante il mondo di Pavese perché ci permette di rivederlo attraverso immagini nuove e le parole dell’autore.
Sono mostrate le pagine dei suoi scritti e le tante correzioni anche solo per cambiare una parola e passaggi ancora tanti attuali come questo, tratto da La casa in collina: “Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.
giovanna barreca