The Butterfly Room

Jonathan Zarantonello, a otto anni da Uncut, torna con un horror thriller girato negli Usa, ben recitato e rifinito con accuratezza e mestiere.

Il bello è che non ci si abitua mai alle incomprensibili stranezze di questo nostro paese. Proprio negli stessi giorni in cui P.O.E. un moderatissimo horror a episodi – prodotto del tutto indipendente – si becca il divieto ai minori di diciotto anni, in sala esce un altro horror, ben più nero e crudo, che non solo non si merita nessun divieto (cosa della quale, sia chiaro, ci rallegriamo assai), ma che alla fine del suo percorso produttivo ci arriva soprattutto grazie al famigerato contributo del Ministero, al denaro pubblico insomma.

Il film di genere – per di più prodotto quasi interamente all’estero – che si vede riconosciuto, caso più unico che raro, il finanziamento da parte dello Stato è The Butterfly Room, terzo lungometraggio del giovane Jonathan Zarantonello, già salito agli onori delle cronache, non solo di quelle cinematografiche, prima per aver prodotto e diretto lo splatter scolastico Medley – Brandelli di scuola (anno 2000, quando ancora il regista, poco più che adolescente, si firmava Gionata Zarantonello) e poi per aver inventato il primo kammerspiel centrato intorno a un pene, Uncut, interpretato dall’ancora poco conosciuta star del porno Franco Trentalance.

Il progetto all’origine di The Butterfly Room nasce proprio in quegli anni, quando la prima idea del film prende la forma di un cortometraggio interpretato da Piera Degli Esposti (Alice dalle 4 alle 5, 2000). Tredici anni dopo Zarantonello esce in sala con un lungometraggio costato un milione e duecentomila euro circa, quasi interamente girato negli Usa, che vede raccolto un cast forse non così appariscente all’occhio di uno spettatore medio, ma incredibilmente ricco e invitante per qualsiasi cultore del genere. La protagonista è la Barbara Steele de La maschera del demonio di Mario Bava (ma tra le sue interpretazioni sono da citare anche due partecipazioni tutt’altro che trascurabili, una nell’8 e 1/2 di Fellini e l’altra ne L’armata Brancaleone di Monicelli), il manovale tutto fare che la ricatta è invece l’attivissimo Ray Wise, tra l’altro inquietante Leland Palmer nel Twin Peaks televisivo e in quello cinematografico di Lynch, e poi ancora la figlia Dorothy, personaggio chiave affidato a Heather Langencamp tra i protagonisti del primo Nightmare e ora prossima a tornare sugli schermi anche nel nuovo capitolo cinematografico di Star Trek, la vicina Claudia interpretata da Erica Leerhsen già vista tra gli altri in Non aprite quella porta, e così via per quasi tutti gli altri attori.

Il plot contiene tutti gli elementi del classico horror thriller: una donna sola colleziona farfalle in una stanza segreta, la piccola e scaltra figlia di una prostituta adesca signore solitarie in cerca d’affetto per farsi ricompensare con soldi e regali; l’incontro fatale fa riaffiorare nella collezionista una vecchia e violenta ossessione affettiva che genererà un vortice di violenza e segreti. Ben fotografato, ben musicato e ben montato (rispettivamente per merito dei quattro italiani Luigi Verga, Pivio e Aldo De Scalzi, Clelio Benevento), il film costruisce bene una storia scritta male, contorcendosi in movimenti pendolari tra passato e presente che servono a dinamizzare e a conferire tensione a una narrazione altrimenti piuttosto esangue. Zarantonello (che qui come in passato scrive e dirige) dimostra doti migliori da regista: seppur senza grande originalità, la messa in scena è risolta con efficienza e senza inutili abbellimenti, mantenendosi concretamente concentrati sul processo del racconto.

Nel complesso fa piacere arrivare in fondo ai lunghi titoli di coda di un film italiano che per una volta sembra straniero: corretto e divertente, rifinito con accuratezza e mestiere, ben recitato e ben doppiato The Butterfly Room prova a essere il nuovo prototipo di un cinema medio, di un cinema felicemente commerciale che in Italia non si produce più da anni e che invece potrebbe facilmente risollevare le sorti di un intero settore “industriale” consentendo anche buone prospettive di riconquista sistematica dei mercati (e degli spettatori) all’estero.

SILVIO GRASSELLI