The Spirit of ’45

Nel suo documentario, Ken Loach mette a confronto le riforme sociali attuate in Gran Bretagna dopo il 1945, il più avanzato esperimento riformista nella storia europea, col disastro a cui, successivamente, avrebbe portato la politica economica di Margaret Thatcher.

In un periodo in cui una parte della popolazione inglese, nonché gran parte dell’establishment politico mondiale, piange la scomparsa di Margaret Thatcher, l’uscita di un documentario come The Spirit of ’45 va orgogliosamente controcorrente. Non potrebbe che essere così, d’altronde, trattandosi di Ken Loach: se è pur vero che il documentario fu realizzato ben prima della scomparsa della “lady di ferro”, per essere poi presentato in una sezione speciale dell’ultimo Festival di Berlino, non abbiamo dubbi che il regista britannico non ne avrebbe certo alleggerito i toni polemici (verso l’eredità della nota statista) se si fosse trovato a girarlo dopo la sua scomparsa. Le parole, ferme nella condanna politica, che il regista pronunciò subito dopo la morte della Thatcher, sono d’altronde molto esplicite. Anzi: in un mondo che mostra, oggi più che mai, un preoccupante deficit di memoria, e che tende immediatamente a santificare i morti, siamo convinti che, se The Spirit of ’45 fosse arrivato la scomparsa della Thatcher, i riferimenti al presente della Gran Bretagna e all’eredità che esso porta con sé, sarebbero stati ben più presenti e marcati. Nel film, d’altronde, è sempre presente (prima a livello implicito, poi esplicitamente quando si esaminano le riforme economiche post-1979) il confronto tra la Gran Bretagna di quell’epoca e quella di oggi: confronto che è, anche, tra due modelli economici e sociali, nonché tra lo “spirito” del titolo e quello, di segno opposto, che un trentennio dopo ne annullò quasi tutte le conquiste.

Nella sua ricognizione, Loach parte in realtà da più lontano, da un primo dopoguerra che aveva lasciato un paese allo stremo delle forze, e con una divisione tra classi sociali più che mai accentuata. Puntando il dito contro una retorica interclassista che aveva significato, nell’occasione, perpetuazione e intensificazione delle disuguaglianze, Loach mostra come il governo eletto in quel 1945 si fosse preoccupato, innanzitutto, di evitare il ripetersi di quella situazione: se la povertà e la disoccupazione avevano favorito, in Europa, la nascita dei fascismi, e l’inizio di una nuova guerra, il rischio che ciò si ripetesse andava assolutamente scongiurato. Fedele alla sua natura di marxista radicale, che tuttavia tiene i piedi ben piantati in terra, nella realtà dei problemi del proletariato inglese, il regista mostra le speranze che avevano animato quel periodo, la forte spinta (ideale prima che politica) verso una vera e radicale trasformazione; che avrebbe significato vita dignitosa, lavoro, casa e istruzione. La valutazione sul governo laburista presieduto da Clement Attlee, e sulle sue innumerevoli riforme sociali, è chiara: quello fu il più avanzato esperimento riformista mai attuato in Europa, che nel giro di pochi mesi attuò un sistema di welfare mai visto prima. L’istituzione, da zero, di un sistema sanitario nazionale, la nazionalizzazione dell’industria mineraria, l’avvio di un grande piano di edilizia popolare, la creazione di un efficace sistema di trasporti pubblici: la parola d’ordine era “quello che siamo stati capaci di fare per la guerra, facciamolo per la vita delle persone“.

Il documentario è strutturato in un abile montaggio di immagini d’epoca (che ritraggono tanto le occasioni politiche – spesso di massa – quanto i dettagli della vita cittadina) e interviste ai molti superstiti di quel periodo, che ne rievocano speranze, spinte ideali e conseguimenti: tra questi, il medico gallese Julian Tudor Hart (pioniere dei medici di base), l’ex minatore e attivista Ray Davies, l’ex membro del Consiglio Comunale di Liverpool Tony Mulhearn (responsabile del piano di edilizia), la novantenne Eileen Thompson, infermiera cresciuta nella miseria della Liverpool degli anni ’30, che potè toccare con mano i miglioramenti portati dall’amministrazione laburista. Il regista sceglie di girare l’intero film, interviste comprese, in bianco e nero, facendo uso del colore solo nelle sequenze finali, in chiave fortemente espressiva: quelle immagini d’epoca colorizzate (con un uso, per una volta intelligente, del più deprecabile degli espedienti dell’industria cinematografica) sono un chiaro emblema della necessità di recuperare, oggi, lo spirito ideale che mosse quegli anni. Va detto comunque che l’approccio di Loach all’argomento, e soprattutto ai conseguimenti pratici del periodo, è tutt’altro che agiografico: il regista si preoccupa di mostrare i risultati ottenuti da quei governanti, costantemente messi a confronto con ciò che era venuto prima e con ciò che sarebbe arrivato dopo, ma anche i limiti di quell’esperienza. Il modello di nazionalizzazione delle miniere, con una gestione burocratica che, nei fatti, ricalcò quella privata, è l’esempio più lampante della delusione che parte di quell’esperienza portò con sé: una rivoluzione lasciata a metà (quando non tradita nei fatti) che tuttavia poteva servire come base per una vera, e radicale, trasformazione sociale.

Può lasciare un po’ perplessi, o almeno disorientati, il “salto” che il film fa nella sua ultima parte, quando dagli anni ’50 si passa direttamente al 1979: la vittoria elettorale della Thatcher, i suoi proclami, l’inizio del lento ma inesorabile smantellamento di tutto quel sistema di diritti che era stato faticosamente costruito. Un “buco” di quasi un trentennio, in cui si successero, di fatto, governi conservatori e laburisti: nessuno dei quali, tuttavia, mise in discussione le conquiste ottenute nel corso di quegli anni. Sta proprio qui, probabilmente, il senso della scelta del regista: quelle conquiste, nella sua visione, sarebbero dovute entrare nel DNA della nazione, fungendo semmai da base per una prosecuzione della lotta: per l’edificazione, anche qui più volte evocata, di una società socialista. La storia, dagli anni ’80 in poi (e non solo nel Regno Unito) è andata nella direzione opposta: il regista, alla fine del film, si preoccupa di mostrare non solo i devastanti costi sociali di quelle scelte (con il crescere della povertà, l’aumentare della disoccupazione, la compressione dei diritti sindacali) ma anche la loro portata negativa a livello economico: con la depressione dell’industria siderurgica, la recessione, lo sperpero di denaro pubblico che avrebbe accompagnato la riforma (di stampo privatistico) della sanità. Un disastro che accomunò (e questa è storia recente) conservatori e laburisti, allineati in un’operazione di compressione e smantellamento dei diritti, che non trovò neanche l’opposizione di sindacati ormai compiacenti. E sta qui, come evidente dagli ultimi minuti, il senso ultimo dell’operazione: parlando del passato, Loach vuole affondare di nuovo il suo sguardo nella materia viva del presente, con lo scopo di modificarla. Quelle immagini a colori, nel finale, sono ben lontane dalla nostalgia: vogliono al contrario vivere, respirare, diventare programma politico. Perché all’utopia va accompagnata, come sempre nel cinema di Loach, la reale e concreta tensione verso la trasformazione.

Marco Minniti per Movieplayer.it Leggi