This is Not a Film

10/09/11 - Il grido disperato di Panahi sulla privazione più atroce che un artista possa subire: esprimersi. Fuori concorso a Venezia 68.

Dalla nostra inviata DARIA POMPONIO

Cosa resta di un artista deprivato della possibilità di esprimersi attraverso la sua arte? Con This is not a Film il regista iraniano Jafar Panahi vive e rappresenta per noi questo dramma con rabbia, frustrazione e un sano desiderio di ribellione. Dopo la proiezione a Cannes, il film è stato riproposto a distanza di pochi mesi a Venezia 68, un atto dovuto, un gesto importante da parte del festival lidense, che premiò il regista con il Leone d’Oro per il film Il cerchio, nell’ormai lontano 2000.
Condannato a 6 anni di reclusione e 20 di interdizione dal proprio lavoro, per aver girato un documentario sulle proteste contro la rielezione di Ahmadinejad, Panahi tenta l’impossibile: girare un film dagli arresti domiciliari rispettando l’assurdo e castrante divieto impostogli dal giudice.

Con un gesto disperato, il regista, filmato dal collega Mojtaba Mirtahmasb (anche lui inviso al regime), legge davanti alla macchina da presa alcuni lacerti della sceneggiatura di un suo nuovo progetto. Così ci ritroviamo di fronte a una sorta di “pitching”, ovvero un colloquio attraverso il quale ci viene di richiesto di produrre il film, non da un punto di vista finanziario, ma investendo in esso la nostra immaginazione. Produttori di immagini per una pellicola che non c’è, e che forse non ci sarà mai, con This is Not a Film viviamo dunque in prima persona il dramma più dolente spettatore abbia mai esperito. Sceneggiatura alla mano, Panahi ci illustra le scene, delimita nel suo soggiorno la location, ricorre ai filmati preliminari alla riprese, poi si blocca, afflitto da un’insopportabile sensazione di “falsità”. Maestro di un cinema che ricerca, senza compromessi, il nitore del vero, Panahi non riesce a stracciare quel velo di menzogna che la legge gli ha imposto, non sa e non può simulare. Dal momento che non può essere regista sposa dunque il ruolo di attore e ricerca alacremente, all’interno della sua filmografia, quegli istanti irripetibili in cui gli interpreti (in Oro rosso) o la scenografia (Il cerchio) sono diventati, per qualche istante, i veri registi del film. Ma il ruolo di attore non gli si addice, contribuisce solo a ricordargli quanto la legge lo abbia deprivato, oltre che del proprio lavoro, anche della sua identità.
Riflessione sul cinema e sulla verità, atto teorico e politico insieme, This is Not a Film è il primo “non film iraniano” che ci è dato vedere, ma non è l’unico.

Panahi si fa carico, infatti, di esprimere la frustrazione di quanti, come lui, si sono visti rifiutare del Governo, l’unico produttore cinematografico in Iran, la possibilità di lavorare. La realtà sopraggiunge comunque nella prigione domestica dell’autore, attraverso echi lontani delle proteste che in quei giorni (siamo nel marzo del 2009) accompagnavano le celebrazioni dell’annuale Festa del fuoco. Panahi si affaccia alla finestra e, riprendendo con il telefonino, cerca tra i palazzi uno spiraglio che possa mostrargli cosa sta avvenendo fuori, ma può coglierne solo echi lontani. Decide così di compiere un atto sovversivo. Quando infatti Mirtahmasb lo saluta per tornare a casa dalla sua famiglia, Panahi si ribella e imbraccia la sua arma: la macchina da presa. Ma è solo per ritrovarsi, giunto al portone del suo condominio, di fronte ad un ultimo ostacolo. Creare stando fermi, fare arte aspettando semplicemente che l’arte si manifesti da sé, è questa l’utopia, bellissima eppure terribile, con la quale più volte l’autore si scontra. This is Not a Film è una pellicola importante, sovversiva, dolorosa, che andrebbe mostrata in tutti i festival internazionali, contravvenendo al diktat dell’anteprima mondiale. Anche quello, infondo, di fronte al potere deflagrante dell’arte, è solo un altro assurdo divieto.