Totem

12/09/11 - La regista Jessica Krummacher firma l'unica pellicola tedesca della SIC di Venezia 68: uno spento e presuntuoso piccolo teorema.

Dal nostro inviato SILVIO GRASSELLI

Dalla Settimana Internazionale della Critica vengono due notizie, una buona l’altra cattiva. La buona è che, vista la galleria di esordi esposti in mostra nella SIC e un po’ ovunque in giro per le altre sezioni di Venezia 68, una nuova generazione di giovani – filmmaker, professionisti e autori del cinema – è pronta per rimpiazzare quella dei vecchi, grandi e meno grandi, maestri compresi. La brutta invece è che molto, troppo spesso gli esordienti, accanto alla perizia tecnica, all’inappuntabilità professionale, alla solidità culturale dimostrano un’ingenuità umana che spesso coincide con una fatale presunzione.
Sembra che questo riguardi anche la tedesca Jessica Krummacher, che nel concorso della Settimana Internazionale della Critica ha portato Totem, film di diploma presso la prestigiosa scuola di cinema di Monaco ed esordio della regista nel lungometraggio. Ispirato a un fatto di cronaca, il film racconta la parabola tragica che conduce inesorabilmente una giovane dal desiderio di indipendenza all’autoannientamento. La storia è tutta compresa in pochi metri quadri: una grande casa – la residenza della famiglia borghese presso la quale la giovane è impiegata come ragazza alla pari – il giardino e pochi altri spazi all’interno dello stesso quartiere.
Sulla carta sembrerebbe un remake aggiornato di La Noir de…, uno dei più grandi capolavori del senegalese Ousmane Sembene: un corpo estraneo, una identità aliena – che nel film del ’66 era quello di una cameriera africana emigrata in Francia, e nel fatto di cronaca cui il film s’ispira esplicitamente era invece quello di una rumena migrata in Germania per lavorare – cerca d’inserirsi in un habitat duro e ostile, chiuso e spietato, gelido e ipocrita come quello della famiglia borghese nell’Occidente del mondo. Anche guardando distrattamente le prime scene del film si potrebbe pensare di scoprire una certa affinità con il rigoroso, abbacinante (falso) precedente. Ma procedendo nella visione con sguardo critico, lasciando scorrere le immagini, il racconto, si capisce presto che la regista tedesca ha lavorato in modo del tutto diverso e che il suo film, apparentemente privo di errori, si fonda in realtà sulla peggiore delle ingenuità: prescindere dalla materia e dai materiali, tenere separati corpo e testa, progettare una cosa e farne una completamente diversa. La freddezza dello sguardo della regista non è dunque rigore ma indifferenza, il meticoloso dispositivo che combina ritmi (grafici) interni all’inquadratura e moduli del montaggio – tra un’inquadratura e l’altra, e tra una scena e l’altra – non è accuratezza ma presuntuoso compiacimento. E il finale –  ineluttabile – non è conseguenza necessaria di una spietata macchina schiacciasassi psico-sociale, ma la futile dimostrazione di un inutile teorema.