Un Notturno che pare infinito. La nostra intervista a Gianfranco Rosi

In concorso Notturno di Gianfranco Rosi che, dopo tre anni sui confini tra Siria, Libano, Kurdistan e Iraq, presenta un'opera dove ha creato un legame tra la dimensione umana delle storie raccontate e non geografico. Un film che illumina il dolore con rara densità. In sala dal 9 settembre.
Intervista a Gianfranco Rosi a cura di Giovanna Barreca

Notturno, un film di luce sul buio delle guerre.

Un viaggio nel dolore e nella vita del Medio Oriente

che canta l’umanità profonda del reale.

Così nel pressbook viene presentato il nuovo film di Gianfranco Rosi, selezionato in concorso alla 77esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e che poi parteciperà anche al Toronto Film Festival, al Telluride Film Festival e al New York Film Festival.
In sala dal 9 settembre, subito dopo la presentazione veneziana, il film porta lo spettatore tra le vittime dei conflitti dove non sono state le bombe a lacerare il corpo ma è stata la condizione di paura costante a creare profonde ferite nei cuori e nelle menti di chi è costretto a vivere in zone di guerra ma ha la forza di sopravvivere, nonostante tutto.

Il regista non crea tra le storie e i personaggi incontrati in tre anni di viaggi sui confini tra Siria, Libano, Kurdistan e Iraq una divisione geografica indicando il luogo delle riprese e degli incontri ma crea un legame umano tra uomini e donne che, loro malgrado, il più delle volte si sono ritrovati da due parti opposte dei conflitti, delle diverse guerre civili, delle dittature feroci che ormai da anni feriscono quell’area del mondo. Uomini, donne e bambini che ogni giorno fanno i conti con i lutti subiti e con la paura e le immagini viste durante anni di guerra.

Il legame creato da Rosi è quello con la paura vissuta, con il dolore che ha attraversato anche giovani menti, come quelle di bambini che nei loro disegni raccontano le stragi alle quali hanno assistito, in uno dei dettagli emotivamente più devastanti del film. E nella prima scena dove gruppi di soldati in marcia passano uno dopo l’altro accanto alla telecamera emettendo un urlo molto acuto per poi allontanarsi, lasciare un vuoto sonoro e fisico, presto occupato da un nuovo gruppo, il regista riesce a riassumere metaforicamente il sentimento col quale convivono ogni giorni i civili e lo trasmette perfettamente anche allo spettatore che pensa che i soldati siano passati tutti e gli urli siano terminati e invece ne arriva inesorabilmente un altro: dopo un conflitto ne arriva un altro quando i civili non se lo aspettano e l’eco di ciò che accade resta.

Il regista Leone d’oro nel 2012 con Sacro Gra, crea un complesso organismo dove illumina il dolore recuperando nel passato l’origine di ciò che c’è negli occhi dei suoi protagonisti nel presente, ponendo a tutti noi degli interrogativi sulle nostre responsabilità morali, chiedendoci di convivere con il silenzio e con l’assenza di futuro dei protagonisti.

Nella nostra intervista ci svela molto dell’impianto produttivo, delle paure e dei pericoli incontrati e di come abbia lavorato, in montaggio, ad asciugare le sue storie per una lettura più universale. C’è un  rigore nell’osservazione della realtà che decide di filmare con una macchina che non è mai invisibile o neutra agli occhi dei suoi protagonisti.

Uno dei film candidati, secondo molti, al Leone d’oro e che, se non lo vincesse, resterà comunque uno dei grandi protagonisti di questa edizione per l’impronta autoriale e per le immagini e le storie che sarà difficile dimenticare.

giovanna barreca