Venere nera

15/06/11 - In una messa in mostra delle atrocità dello sguardo, il regista di Cous cous, Kechiche racconta la storia vera di un'africana vittima dell'imperialismo.

Distribuito dalla Lucky Red, esce finalmente nelle sale italiane uno dei film più belli e importanti tra quelli presentati alla 67/a edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Venere nera di Abdellatif Kechiche. Il regista franco-tunisino, già apprezzato per La schivata (2003) e Cous Cous (2007), mette qui da parte i toni, a tratti leggeri a tratti malinconici, dei suoi precedenti film e arriva quasi alla radice stessa del suo cinema: il discorso sulla migrazione africana in Europa. Non è però l’ovvia denuncia che interessa Kechiche, quanto le dinamiche dello sfruttamento di quei corpi e il meccanismo, ora implicito ora esplicito, della violenza degli europei nei confronti di un altro popolo. In tal senso, se ne La schivata e in Cous cous si mostrava un meticciato ancora irrisolto a livello sociale, in Venere nera si risale agli albori del multiculturalismo rintracciando la colpa originale nell’imperialismo ottocentesco. La storia autentica di Saartjie Baartman, che tra il 1810 e il 1815 veniva esibita in spettacoli pseudo-circensi come animale esotico paragonabile alle scimmie, assurge infatti a simbolo dello sfruttamento di una civiltà nei confronti di un’altra.

Non è un caso che Kechiche decida di cominciare il suo film mostrando prima una esibizione scientifica del calco del cadavere della Baartman e, subito dopo, una messa in scena spettacolare del suo stesso corpo: con ciò ci si vuole dire che scienza e avanspettacolo fanno parte di un unicum racchiudibile nell’oppressiva idea occidentale della rappresentazione dell’Altro. L’alterità è messa in mostra per essere derisa, analizzata, scorporata e dunque uccisa e resa innocua. Presuntamente di un’altra razza, denominata ottentotta, la donna viene esposta all’osservazione lubrica ora di scienziati, ora di libertini, ora di semplici spettatori per la particolarità dei suoi organi intimi e per l’enorme circonferenza del suo didietro. Ma il gesto decisivo operato in Venere nera sta nell’aver tralasciato ogni psicologismo per concentrarsi proprio sulle messe in scena che di volta in volta la donna si trova a dover riproporre di fronte a differenti pubblici. E allora la violenza diventa lo stupro dello sguardo, la reiterazione dello stesso. In questo modo il regista di Cous cous arriva a mettere in discussione il cinema stesso, costringendo lo spettatore a fare i conti anche con il suo ruolo di voyeur. Il rigore stilistico di Venere nera però è tale che persino Kechiche rifiuta di nascondersi dietro a ipocrisie, esplicitando piuttosto l’ambiguità del suo ruolo, di chi organizza ed autorizza la pornografia dello sguardo. Operazione necessaria e attualissima in un’Europa che ancora oggi rimuove le tragedie dei migranti africani, Venere nera si può apparentare a Tutti per uno, un altro film francese in sala in questi giorni che dimostra come certi cineasti d’Oltralpe abbiano una visione assolutamente avanzata della questione della migrazione, al contrario di quel che accade normalmente da noi.

ALESSANDRO ANIBALLI

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