Vergiss Dein Ende

28/11/11 - A Torino 29 Andreas Kannengiesser porta un saggio accademico dalle molte pretese che tradisce però le aspettative.

Dalla nostra inviata LIA COLUCCI

Al Festival di Torino arriva in concorso la prova di diploma del regista trentatreenne Andreas Kannengiesser: Vergiss Dein Ende. Una vicenda dai toni estremamente drammatici che narra la storia di Hannelore (Renate Krobner) che ormai consunta dalla malattia degenerativa del marito, ridotto a uno stato quasi vegetale, decide di partire con il suo vicino di casa Gunther (Dieter Mann), lasciando il coniuge Klaus (Hermann Beyer) nelle inesperte mani del figlio Heiko (Eugen Krobner). L’autore si pone di fronte a interrogativi interessanti quali la malattia, la fuga, l’idea di potersi dare una seconda occasione. Ma se le ideali premesse sono promettenti lo svolgimento e le soluzioni non vanno oltre la tesi universitaria: i sensi di colpa aggrediscono Hannelore sino a spingerla al tentato suicidio; Gunther ancora afflitto dalla morte del coniuge non può esserle di nessun aiuto, mentre Heiko che è in crisi con la moglie ma aspetta anche un figlio è completamente cieco di fronte ad ogni problematica materna. Ad Hannelore non rimane che Klaus, che paradossalmente per il marito è una perfetta sconosciuta. Forse il regista trova lì il punto per ricominciare una nuova vita, dall’oblio della malattia.

Vergiss Dein Ende è un film ambizioso che pone in campo tematiche filosofiche-morali di un certo impegno: malattia, morte, fuga, ma che non sa poi dare delle adeguate risposte sia attraverso la sceneggiatura, appena abbozzata, che attraverso le immagini che non superano mai il livello della mediocrità. Interessante invece il lavoro degli attori che recitano con una certa naturalezza senza enfatizzare una pellicola che potrebbe portarli a eccedere. Piuttosto convincente anche la scelta dei paesaggi che ben si intersecano con l’irrequieta fuga. Purtroppo Andress non riesce dove voleva, ossia fare un grande affresco della malattia e della paura che ne scaturisce.Tutto è molto pallido e pacato, non domina il dramma interiore, la malattia non è poi così reale, la fuga non arriva da nessuna parte e anche i figli non hanno diritto a una dosa di sana infelicità. Una pellicola sicuramente pessimista, in cui però la massima di “chi si accontenta gode” toglie molto alla drammaticità iniziale. Un’opera ancora acerba con tematiche che probabilmente il regista rielaborerà in seguito, dandosi ben altre risposte e soluzioni.