VII Indielisboa

03/05/10 - Il titolo è un augurio. L’augurio che l’Indielisboa – Festival Internazionale del Cinema...

VII Indielisboa: Settanta volte sette

03/05/10 – Il titolo è un augurio. L’augurio che l’Indielisboa – Festival Internazionale del Cinema Indipendente, svoltosi nella capitale portoghese dal22 aprile allo scorso 2 maggio, possa procedere ancora molto tempo sulla sua strada, affilando lo sguardo e componendo un’offerta culturale sempre più densa. Lo stato dei fatti è che nel giro di sette edizioni l’evento lisbonese è riuscito a guadagnarsi se non l’auterevolezza, almeno il credito e la qualità dei maggiori omologhi europei. E questo senza ciecamente adeguarsi alle logiche del mercato e della comunicazione culturale di questo continente, lasciando da parte la corsa ai titoli più attraenti, all’anteprima a tutti i costi; avendo invece il coraggio di prendersi tempo e costruire discorsi forti anche attraverso pellicole “vecchie” più di dodici mesi, nomi non ancora di primo piano, progetti difficili o eccentrici per necessità.

Indielisboa 2010Tralasciando qui l’elenco delle presenze da prima pagina (Herzog, Hou Hsiao Hsien, Di Cillo, Johnnie To; Luca Guadagnino, Pietro Marcello e Roberta Torre per l’Italia) proviamo a dare un assaggio della ricchissima offerta di film di ogni genere e durata rigorosamente prodotti fuori dai grandi circuiti dell’industria internazionale. Iniziamo dai documentari. In Italia, il nome di Heddy Honigmann dice poco a molti. Eppure senza il lavoro di questa maestra del cinema di non fiction il panorama del cinema contemporaneo non sarebbe lo stesso. Peruviana con passaporto olandese, Heddy Honigmann ha studiato a Parigi per poi stabilirsi in Olanda dove ha esordito alla regia di lungometraggio nella prima metà degli anni ottanta. Indielisboa le ha dedicato quest’anno una retrospettiva quasi completa, includendo anche Mind shadows e Au revoir, i suoi due film di finzione, dedicati rispettivamente al tema della memoria – come funzione fisiologica, come luogo dell’identità e come strumento di relazione con il mondo – e della passione amorosa, della coppia, dell’eros più in generale. Due film che, oltre il loro oggettivo interesse, possono essere usati come vere e proprie guide critiche alla scoperta della filmografia documentaria di Honigmann. Da Crazy a O amor natural e da Metal and Melancholy a Forever – uno dei migliori di tutti – il dispositivo primario che ricorre di film in film è l’intervista. La scelta non è però dettata da inerzia estetica o rigidità ideologica: sullo schermo i volti e le parole si affiancano e si rincorrono, fagocitandosi a vicenda. Intorno, gli spazi dell’incontro, le stanze private, le tombe o le auto, le pubbliche piazze, vibrano e risuonano accogliendo le narrazione memoriali di questi protagonisti, conferendo alle loro parole densità quasi carnale.

Passando oltre, citiamo l’inglese Chris Petit. Inserito anche in Director’s cut, sezione riservata la cinema sul cinema con Radio on, 1978, suo primo lungometraggio narrativo, Petit ha presentato a Lisbona il suo nuovo film saggio. Content è un lungo e complesso itinerario, a metà tra ricognizione speculativa e narrazione memorial-esistenziale, che al suo interno comprende riflessioni estetiche, ricordi privati, note al margine di un uomo che è stato figlio e che deve ancora comprendere il proprio ruolo di padre. Tra le scoperte inattese citiamo invece Fragmentos de um Diario, lungometraggio portoghese che, attraverso uno stile raffinato e una notevole consapevolezza tecnica, costruisce una riflessione sull’immagine fotografica e ancor più sul gesto dello scatto, incontrando alcuni tra i più autorevoli e celebrati fotografi contemporanei. Marco Martins e André Principe, attraverso le due cineprese 16mm che usano per girare, raccolgono frammenti della pratica di questi “narratori frammentari” connettendoli e raddoppiandoli dentro un film di grande eleganza formale. Altra e più inattesa scoperta Les arrivants, rischioso documentario sociale sulla condizione e le traversie degli immigrati che presentando domanda di asilo politico negli uffici parigini. Senza pietismi e senza volgari passi falsi, Plaudine Bories e Patrice Chagnard scelgono con decisione uno stile leggero e una struttura più attenta all’efficacia narrativa che all’esaustività delle informazioni. I due registi trovano felicemente una notevole galleria di personaggi, sapendone cogliere momenti rivelatori e illuminanti, e restituendoli almeno in parte alla loro complessità di persone.

I due film più divertenti sono due commedie agli antipodi. Da una parte La reine des pommes, seconda prova alla regia per l’attrice francese Valerie Donzelli. Una parodia della commedia romantica, del mondo di Amélie e di tutti i suoi molti epigoni; un film teso e dinamico, sempre in bilico sul baratro del dilettantismo ma che risolve le sue incertezze facendo ampio ricorso a una lucida ironia. Folle esperimento poi il secondo film del giapponese Hitoshi Matsumoto dopo Big Man Japan. In Symbol le vicende di un anonimo lottatore messicano s’intrecciano imperscrutabilmente a quelle di un uomo in pigiama intrappolato in una stanza vuota. Tra gag ed effetti visivi, trovate goliardiche e intuizioni sorprendenti Matsumoto – anche protagonista – finisce incredibilmente con l’approdare alla parodia filosofica.

(SILVIO GRASSELLI)

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