A lato del cinema

27/07/09 - Mi ricordo una grande sofferenza espressa con ripetuti sospiri, impaziente a rigirare la testa...

A lato del cinema – fatti e misfatti intorno alla settima arte

Il lato del digitale – I Public Enemies di Michael Mann

(Nuova rubrica a cura di Marco Giallonardi)

a-lato-logo-intero27/07/09 – Mi ricordo una grande sofferenza espressa con ripetuti sospiri, impaziente a rigirare la testa e a tirarmi dritto sulla poltrona mentre ero al cinema a vedere “Collateral” (regia di Michael Mann, qualche anno fa). Perchè oltre ai luoghi comuni su cui la scrittura insisteva, personaggi tagliati con l’accetta di molto affilata e svolte narrative estremamente prevedibili, quel che mi turbava più di tutto erano le immagini del film. A prima vista sembravano identiche a tutte le altre, ma poi però capivi che molto c’era di diverso rispetto all’abituale “sostanza” da immagine filmica. Se n’era fatto un gran parlare, nei mesi precedenti: ecco finalmente la tecnologia digitale in un film d’azione che non usa l’effetto speciale digitale, ma solamente la sua tecnologia. Il che voleva dire camerine quasi amatoriali e minuscole, costi di produzione dimezzati (in realtà  lievemente contenuti), troupe alleggerita e nuove prospettive per una diversa grammatica cinematografica. Sembrava si fosse inaugurata un’era, quando poco cambiò, negli anni a venire: i registi continuarono a mettere le mani “nel sacco nero della pellicola”, come ama dire un amico direttore della fotografia, e della nuova tecnologia digitale pochi si accorsero. Eccezion fatta per il delirio filmico di David Lynch, “Inland empire”, e pochi altri. Ma lì l’uso del digitale era questione secondaria, e molto personale, per nulla legata al cinema di genere cui vuole rifarsi invece Mann.

Dopo la tappa intermedia di “Miami Vice”, un paio di anni fa, oggi Michael Mann torna con un nuovo esperimento, ancor più radicale e di certo più interessante di “Collateral”. Il titolo è “Public Enemies” ed è la storia di John Dillinger, il noto gangster americano degli anni ’30. I protagonisti sono niente po’ po’ di meno che Johnny Depp e Christian Bale. Lo produce la Universal, con grande sforzo economico complessivo. E con l’imbruttimento, la scialberia, la rozzezza, la…E’ difficile trovare termini appropriati per descrivere il risultato che vien fuori in “Public Enemies”, nel suo stridente connubio di linguaggi. Mi spiego meglio. Noi poveri mortali, legati ad un immaginario depalmiano figlio della “bella” immagine de “Gli Intoccabili”, piena di sfarzo, di lucine e angolazioni sublimi, si resta allibiti di fronte allo sgretolamento che “Public Enemies” produce. Il film parte su un esterno di grande respiro, cielo di un azzurro intenso, profondità  dello sguardo: la pasta e la “veritࠔ della classica visione in cinemascope. Ma non appena il film entra nel carcere da cui dopo poco Dillinger fuggirà , ecco che un’altra visione sostituisce la prima: sembra il filmino del mare, colori sbiaditi, luci spesso sovra o sotto esposte, movimenti di macchina azzardati e poco comprensibili, imbarbarimento generale. Il cuore sussulta, non si capisce cosa accada. Soprattutto perchè la confezione del film è da altri punti di vista eccellente: la recitazione, i costumi, le locations, il trucco. Si pensa che abbiano sprecato un sacco di soldi, che di tutta quella grandeur si perda molto a girare in questo modo. Ma non è così. Tra le mani lo spettatore consapevole si trova un prodotto davvero inusitato, che se resta legato con forza al suo genere, un gangster-chase-movie solido che sa anche giocare sull’imprevedibilità , capace di far ridere e di non annoiare nei suoi pur lunghi 140 minuti, dall’altra parte fa compiere un balzo importante alla storia del cinema in digitale.

Forse, come in passato, pochi avranno il fegato di seguirlo su questa strada complessa, viscida e per molti poco comprensibile, ma l’attestato di stima per chi ha ancora il coraggio di sperimentare, nel cinema contemporaneo, stavolta a Michael Mann non glielo toglie nessuno.

POSTILLA
L’amico con cui ero in sala, scarsamente cinefilo e ignaro della misura sperimentale del film, mi avrà  ripetuto almeno cinque volte: “Ma non ti sembra un po’ strana st’immagine?”