La Venezia di Barney

11/09/10 - Dopo giorni di visioni lontane e talvolta impervie, a Venezia il concorso sceglie di congedarsi con un...

Venezia 67: la sezione-concorso chiude in pieno “Hollywood mainstream” con “Barney’s Version” di Richard J. Lewis. Simpatico e superficiale il nuovo Tom Tykwer di “Drei”, inaspettatamente in vena di commedia

(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)

11/09/10 – Dopo giorni di visioni lontane e talvolta impervie, a Venezia il concorso sceglie di congedarsi con un totale sprofondamento nella Hollywood più classica. Barney’s Version divertirà e commuoverà milioni di spettatori, è facile prevederlo. Il quasi-esordiente Richard J. Lewis, che viene (e si vede) dal mondo creativo dei serial televisivi americani, aderisce totalmente alla retorica espressiva più convenzionale e più vulgata del cinema mainstream statunitense. E proprio tale veste formale, tirata a lucidissimo, lussuosa e sfavillante, rischia di raffreddare la fruizione del film. L’atmosfera da “sit-com e soap-opera di altissima classe”, la smaccata appartenenza dei protagonisti a un mondo upper class, mettono fortemente a rischio l’adesione emotiva dello spettatore. Fortuna vuole che, ad abbracciare il pubblico in una stretta commovente e calorosissima, ci pensino un testo di partenza molto valido (il romanzo omonimo di Mordecai Richler) e uno straordinario Paul Giamatti, capace d’incarnare un personaggio centrale a tutto tondo, indagato e restituito in ogni suo minimo fremito psicologico. Fatta eccezione per l’ultima mezz’ora, Barney’s Version rifiuta una vera dimensione di dramma, e assistiamo “semplicemente” allo svolgersi, sull’arco temporale di trent’anni, della vita del protagonista. Che accumula debolezze e vigliaccherie, scelte impulsive e rovinosi errori, secondo un impasto di (in)consapevole incoscienza regressiva e amore per la vita che, tramite la prova strepitosa di Giamatti, palpita di verità anche nel contesto sociale (intellettuali e tv) più lontano e improbabile. Il tutto è sorretto da un ammirevole lavoro di sceneggiatura, che alterna humour nerissimo (in un film così innamorato della vita, è altrettanto sorprendente quanto la dimensione della morte, spesso vista in chiave cinica, permei tutta la narrazione) a commedia brillante e malinconica, al dramma lacrimoso e convenzionale del finale. Manca, è vero, una reale interpretazione del romanzo, così come manca la capacità di sintesi. Siamo dalle parti, insomma, della mera e acritica illustrazione per immagini di un testo narrativo, e visivamente Lewis non mostra nulla di nuovo. Ma restiamo comunque nell’altissima professionalità del cinema medio statunitense. E sarebbe gradito vedere Paul Giamatti allontanarsi sul vaporetto con la Coppa Volpi sotto al braccio. Minima ricompensa, in fondo, per un attore meraviglioso e sempre scandalosamente trascurato dalle giurie degli Oscar.

Una piccola sorpresa viene invece da Tom Tykwer, in concorso con Drei. Una pura e semplice commedia, lontana dagli sperimentalismi e dall’aria-videoclip degli esordi dell’autore tedesco, che stavolta si limita a utilizzare di tanto in tanto lo split screen. Commedia di equivoci sessuali, in cerca di nuovi equilibri che vadano oltre la coppia esclusiva e la procreazione tradizionale. C’è un tantino di programmatico nella scelta della storia, e comunque il film resta molto in superficie, chiudendosi poi con un finale inspiegabilmente affrettato. Però il meccanismo di commedia funziona, e gli attori (specialmente Sophie Rois) sono bravissimi.