Noi credevamo, a Venezia

08/09/10 - Venezia 67: cupissimo e potente il Mario Martone risorgimentale di "Noi credevamo"...

Venezia 67: cupissimo e potente il Mario Martone risorgimentale di “Noi credevamo”. Interessante, malgrado varie pesantezze, anche “Attenberg” della greca Athina Rachel Tsangari

(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)

08/09/10 – Mario Martone narra dell’origine violenta dello stato italiano: in Grecia, Athina Rachel Tsangari riflette sulla fine del secolo e sulle sorti della sua patria tramite una storia minimale e di forte astrazione narrativa. Giornata di bilanci storico-nazionali, in concorso alla 67. Mostra del cinema di Venezia, con ambizioni più o meno universalistiche.

Di Noi credevamo si è già sentito parlare molto, tramite il solito codazzo di polemiche preventive quando si vanno a toccare nervi scoperti della nostra storia. C’è pure chi ha tirato in ballo il falso problema di un’ipotetica “infruibilità” in sala per un prodotto che supera le tre ore di durata. Giusto pour-parler fini a se stessi, potremmo dire. In realtà il film di Martone è impressionante, in quanto si propone come un anti-kolossal storico, una sorta di “psicodramma”, tragico e oscuro, sull’origine violenta dell’unità italiana. La durata è smisurata, ma la costruzione narrativa è sapiente, scandita in quattro episodi animati dallo stesso gruppo di personaggi. Quattro movimenti della stessa sinfonia. Ciò conferisce all’opera una fortissima unità interna, che le permette di non disperdersi in un racconto banalmente giustapposto. Ancora a suo favore, il secco rifiuto di un cinema stupidamente cronachistico, alla ricerca invece di una costruzione sì teatrale, ma che sposa la cupezza di Shakespeare alle accensioni del melodramma italiano. Riflessione e ricostruzione operistica di episodi storici, ben radicata su una tesi piuttosto facile e tutto sommato risaputa, ma narrata con grande potenza e persuasione: l’atto di nascita dell’Italia unita fu borghese, non popolare, e chi ne fece le spese più di tutti fu esattamente il popolo. Un’unità nazionale perseguita tramite i fuochi di una proto-guerra civile. E’ apprezzabile il tentativo antiretorico, la distanza da strizzatine d’occhio avventurose o da feuilleton televisivo (sarà banale, ma non c’è alcuna storia d’amore a fare da filo conduttore). Lascia molto perplessi, tuttavia, la monotonia visiva, che si basa su un uso prettamente narrativo dell’inquadratura. Forse la destinazione televisiva presuppone al progetto, ma ne siamo poi veramente sicuri? E’ adatta al pigrissimo pubblico televisivo italiano un’opera che rifiuta la poetica della peripezia infinita, che scava così a fondo nelle contraddizioni storiche del nostro paese, che ricorre anche a (francamente infelici e pesantemente didascalici) “anacronismi d’autore”? Nutriamo forti dubbi.

Di Attenberg, invece, si resta sostanzialmente affascinati e un po’ straniati. Autrice di un cinema concettuale, che tuttavia non rinnega una vera dimensione narrativa, la Tsangari pecca soltanto per qualche pesante simbolismo (padre, figlia, il secolo vecchio che lascia il posto al nuovo, i destini della Grecia e di un paese sostanzialmente immobile in attesa di un futuro che non arriva mai…), ma si distingue per un ottimo e inedito senso dell’umorismo e per una costruzione narrativa geometrica e spietata, appena un po’ soffocante. Oggetto felicemente inconsueto senza essere (troppo) presuntuoso.