Parola al cinema

18/12/09 - "Dieci inverni" di Valerio Mieli è davvero un bell'esordio. Aveva lasciato un segno all'ultimo Festival di...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Dieci inverni”, le insidie, parzialmente superate, di una narrazione meccanica

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def18/12/09 – “Dieci inverni” di Valerio Mieli è davvero un bell’esordio. Aveva lasciato un segno all’ultimo Festival di Venezia, e una seconda visione ne conferma tutte le qualità. In primo luogo di ordine stilistico (un gusto raffinato per le riprese, per le tonalità malinconiche e crepuscolari, ambientate oculatamente tra Venezia e Mosca, una modulazione generale così poco “italiana” e più europea, ma senza mai cedere a cliché o a narrazioni transeuropee omologate), poi attoriale (belle prove di Michele Riondino e Isabella Ragonese), infine narrativo. Metto la narrazione come ultimo elemento, perché, malgrado l’ottimo soggetto, si avvertono comunque alcune difficoltà e rigidità nella scansione del racconto. Si è già sentito parlare dello scarso movimento drammaturgico all’interno della vicenda narrata, ma non è da valutare come un difetto a priori. Mieli e i suoi collaboratori alla sceneggiatura hanno scelto un racconto a metà tra intenerimenti romantici, mai a buon mercato, e la ricerca di un realismo dei sentimenti, fatto di parole e silenzi ben calibrati, in cui gli attori devono spesso giocare sul non-detto, sull’interpretazione non verbale. Non si tratta di vuoto drammaturgico, perché alla fine un conflitto, tutto psicologico e mai veramente sociale, emerge con forza e sostiene tutta la narrazione: non tanto le difficoltà di una generazione di precari nel dare forza e voce ai propri sentimenti, bensì le tenui difficoltà della maturazione, colta in quell’età di passaggio tra i venti e i trent’anni, in cui pare non succedere nulla ma, alla fine, si decide buona parte della vita successiva, senza che ce ne sia quasi mai una totale consapevolezza. Mieli si riallaccia a moduli narrativi più letterari che cinematografici, anche piuttosto espliciti nel tessuto stesso del racconto: i brevi racconti, dominati da una sostanziale malinconia, di Anton Cechov, materia della tesi di laurea del personaggio di Camilla, esempi mirabili di piccole grandi narrazioni intorno a figure umane incapaci di scelte forti e decise, scelte affidate al corso degli eventi e mai all’individuo. Camilla e Silvestro compiono un percorso simile, e non a caso Camilla, il personaggio più consapevole tra i due, sprofonda verso la fine nell’abulia della depressione, esattamente nel momento in cui giunge alla consapevolezza di non aver quasi mai scelto davvero per la propria vita. Il lieto fine a cui i due approdano è comunque sospeso nella precarietà, nella felicità di un momento, non si sa quanto duratura: stesso leit motiv dell’opera cechoviana.

dieci inverniUn bel racconto, insomma, con una propria specifica drammaturgia, e che parte da un buon soggetto. L’idea di distendere il rapporto tra i due protagonisti in brevi frammenti invernali, scanditi su dieci anni da nette cesure temporali e narrative, è un ottimo telaio, che però non riesce a tenersi sempre lontano da ingenuità e difficoltà strettamente diegetiche. Tralasciando la laurea super-breve conseguita da Silvestro, le maggiori difficoltà si presentano negli ultimi segmenti. Sebbene la storia si dipani su dieci anni, appare un po’ goffa, per esempio, la scelta di far innamorare Camilla e Simone, uno dei migliori amici di Silvestro, quando più volte si sono già fatti evidenti i sentimenti di quest’ultimo. Ne risente per lo più il personaggio di Camilla, che vive sì nell’indefinitezza e nella difficoltà a operare scelte, ma talvolta rasenta un’incoerenza poco realistica. Così come, per tenere probabilmente la narrazione chiusa su pochi personaggi (scelte dettate, forse, anche da budget e da problemi meramente realizzativi), appare un po’ forzoso circoscrivere gli sviluppi dei due protagonisti intorno a una limitatissima sociosfera, specie in una città come Venezia e in ambito accademico. I problemi maggiori emergono, insomma, quando la struttura narrativa, inevitabilmente rigida (la scansione a frammenti con intervalli temporali limita molto le scelte), sopravanza sul profilo umano dei personaggi e li condiziona in modo meccanico. Stessa cosa per la reazione di Camilla la mattina dopo la festa a sorpresa andata a vuoto. La sua ennesima rottura con Silvestro è rapida, poco motivata, troppo netta, ed emerge troppo automaticamente la necessità di allontanarli di nuovo per proseguire la narrazione. Magari, se gli inverni fossero stati sei o sette, ne avrebbe guadagnato la compiutezza narrativa. Nel procedere della narrazione si rimane spesso sorpresi da come, nelle “stagioni mancanti”, succeda troppo, o non succeda praticamente nulla. A volte ritroviamo i personaggi all’identico punto in cui li abbiamo lasciati; altre volte le loro vite sono cambiate radicalmente tramite poco credibili rimescolamenti con gli stessi pochi personaggi.

Rimane apprezzabile, comunque, il rifiuto di convenzionali dispositivi narrativi. Non vi sono colpi di scena, non si delinea una drammaturgia energicamente conflittuale, ma il conflitto col tempo, con la giovinezza che fugge e inconsapevolmente modifica, con le crescenti responsabilità nelle scelte per se stessi, emerge tramite semitoni realistici e credibili. E rimane una grande curiosità verso la futura opera seconda di Valerio Mieli, che ha già mostrato di avere ottime referenze cinematografiche, narrative e culturali.