Parola al cinema

13/11/09 - Nella sua carriera ormai più che ventennale, Michael Mann non è mai andato...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Nemico pubblico”: la classicità di Michael Mann, ai confini del Mito

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def13/11/09 – Nella sua carriera ormai più che ventennale, Michael Mann non è mai andato troppo per il sottile. E’ uno dei pochi autori, tra gli ultimi rimasti, che pensano in grande, che amano il cinema come veicolo di grandi storie, personaggi smisurati, immensi conflitti e dilatazioni spazio-temporali quasi del tutto accantonate dalla produzione attuale. Classicità pura, quantomeno in ambito di narrazione, malgrado il tentativo, palese in “Nemico pubblico”, di rilettura moderna di epoche passate. Sebbene le sue storie siano di cristallina semplicità e di ampio appeal (i gangster movies e i polizieschi sono un perfetto modello di cinema popolare), con gli anni il cinema di Mann sta diventando sempre più “prendere-o-lasciare”: per molti inanella capolavori uno dopo l’altro, per altri può risultare di inusitata pesantezza retorica. Non tanto per una retorica di contenuti a monte del progetto (nulla è più alieno a Mann del cinema “a tesi”), quanto per retorica formale e narrativa, per la costante rappresentazione di personaggi giganteschi, di titani che si scontrano con le strettoie della realtà, uscendone inevitabili perdenti.

La vicenda di John Dillinger pare attagliarsi perfettamente alla poetica dell’autore. Chi meglio di questo regista poteva raccontare di nuovo l’epopea di un gangster anni ’30, solitario e fuori dagli schemi, che con fiero orgoglio rifiuta le logiche della nemico pubbliconascente criminalità organizzata finendo stritolato tra la giustizia e gli stessi nuovi fuorilegge? Di John Dillinger, Mann non racconta nulla di strettamente “reale”, né tantomeno di “storico”. A lui interessa l’ennesima caduta di un mito, interessa la caccia all’uomo, interessa rappresentare la grandezza di una figura che, pur operante nel Male, supera le barriere delle categorie morali perché superiore alla realtà circostante. Figura cupa, tetra e immensamente tragica nella sua predestinazione. Stesso tessuto narrativo che sorreggeva “Heat” e “Collateral”, e stesso tessuto narrativo, con valori nettamente rovesciati (un Bene ideale che vince su un Male altrettanto ideale), di “Alì” e di “The Insider”. Il cinema di Mann è il netto opposto di quello di Tarantino, per intenderci: il cinema di Tarantino sta al dialogo come il cinema di Mann sta alla pura azione. E’ solo tramite l’azione che il personaggio di Mann acquista spessore e si autorappresenta. Il Mito non ha psicologia, non ha dimensioni reali, non può essere indagato, ma solo rappresentato nel fare. Il copione di “Nemico pubblico” appare di una semplicità quasi elementare, e si nutre consapevolmente di archetipi da gangster movie: una prima parte che narra delle gesta di Dillinger nel suo periodo d’oro, una svolta piazzata a metà della storia (la criminalità organizzata scarica Dillinger), e una seconda parte di dolorosa caduta, in cui il protagonista resta orgogliosamente ancorato a una “poetica gangsteristica” di eroe solitario che non ha più spazio nella nuova realtà. E, ovviamente, un disperato romance da filo conduttore, com’è solito in ogni gangster movie che si rispetti. Una catena narrativa semplice, dunque, che Mann dilata a dismisura tramite lo strumento dell’enfasi narrativa, come tipico nel suo cinema. Qui la porta addirittura alle sue più estreme conseguenze, annullando totalmente psicologie e tratti umani dei personaggi, riducendo al minimo la funzione performativa del dialogo, e affidando il dipanarsi della vicenda alla pura azione. Rocambolesche fughe dal carcere, rapine in banca, caccia all’uomo, altre fughe, ferimenti, un’infinita peripezia, che si rinnova a ogni sequenza. Mann, si sa, è un maestro nelle sequenze d’azione, e ciò gli permette di tenere altissima la suspense e la tensione narrativa dall’inizio alla fine reiterando, di fatto, per tutto il film lo stesso brano narrativo, ossia il tentativo di catturare Dillinger.

L’enfasi è riconfermata pure nel finale, dove Mann ricorre al ralenti (tecnica “brutta”, ma a cui è palesemente affezionato) nella sequenza dell’omicidio di Dillinger. Come nella squallida realtà della criminalità organizzata non c’è più spazio per un Mito come Dillinger, così, nell’ambito della produzione mainstream, appare sempre più solitario e frontieristico il cinema di Mann. La sua narrazione di miti in guerra con la realtà, e le relative dilatazioni diegetiche, ricordano Sergio Leone (come dimenticare la sequenza finale di “C’era una volta il West”, dove la città moderna fa piazza pulita dei titani che prima dominavano il paesaggio?), e anche le opere di Clint Eastwood. Ma Michael Mann è ancora più puro, perché nella tragicità delle sue storie non inserisce mai una nota didascalica, come talvolta è riscontrabile in Eastwood, o elegiaca, come talvolta è ravvisabile in Leone (e, quando ha tentato di farlo, vedi “Alì” e “Collateral”, ha realizzato le sue opere più imperfette). Ma chi raccoglierà l’eredità di Michael Mann? Come probabilmente pensava John Dillinger guardandosi intorno, il panorama è desolante.