Super 8

07/07/11 - L’omaggio di J.J. Abrams al cinema di Spielberg, Dante e Romero è un chiaro esercizio di stile, ma di quelli che rimangono nella memoria.

Echi di cinema lontano riaffiorano dolcemente all’occhio umano dello spettatore, che, ammaliato, rivive in Super 8 il profumo delle opere di Steven Spielberg e Joe Dante. A conti fatti, J.J. Abrams è sicuramente il loro erede, in particolare del primo, con il quale condivide sia il percorso di regista, dal piccolo al grande schermo, sia l’essenza della poetica dei codici narrativi del suo americanismo. Con un occhio attento ai suoi temi e al suo linguaggio estetico, Abrams ricalca lo spirito del maestro del blockbuster, che in questo caso non poteva mancare nella sua veste di produttore. E il gestante di Lost lo fa dilettandosi con la stessa ironia e lo stesso fine artistico e commerciale che sta menzionando, ricucendo nel film l’innocenza perduta di quell’America che deve fare i conti con il concetto di diverso e che già trent’anni fa, all’epoca del suo fulgore, il suo cinema compiva un’operazione nostalgica nei confronti della sua anima; Super 8 alla fine si rivela essere gioco poliedrico (con la musica, il montaggio, le inquadrature, la fisicità degli attori) nella rielaborazione dei due capisaldi, E.T., l’extraterrestre e Incontri ravvicinati del terzo tipo, del maestro. Senza dimenticare I Goonies mitici di Joe Dante e gli zombie di Romero. Lo sfruttamento del cinema come mezzo meccanico diviene l’assetto principale della sua funzione metalinguistica. In fondo anche nel plot tutto parte da lì: mentre stanno girando un film in 8mm sugli zombie in una stazione dismessa di un paesino di provincia nell’Ohio, alcuni ragazzini diventano testimoni di un catastrofico incidente ferroviario. Ben presto, i giovani scoprono che quello non è un semplice incidente, ma qualcosa di più grande.

In un momento storico in cui la cultura del riuso è alla base dell’educazione dell’essere umano, Abrams la applica al cinema dell’era consumistica per eccellenza, incanalando tutti i cliché del genere: dai luoghi feticcio della provincia americana, i supermarket desolati e i distributori di benzina, essenza della letteratura sci-fi di Philip K. Dick, ai temi della crescita e dell’ingresso nell’età adulta, con la maturità pagata con il caro prezzo della perdita e della sofferenza (il film comincia con la morte improvvisa della madre del piccolo protagonista), il conflitto e la comprensione nei confronti del diverso, la costante presenza delle autorità e la critica ad essa (in questo caso l’esercito), la manipolazione della verità da parte del governo americano. J.J. Abrams rende così Super 8 un saggio di critica cinematografica, omaggiando la settima arte a cavallo della fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta non solo nella sua estetica, ma soprattutto nel suo intento, ricalcandone la medesima funzione spettacolare e realizzando con una narrazione semplice e lineare – il punto di vista di un ragazzino al principio della sua adolescenza – un chiaro, ma non fine a se stesso, esercizio di stile. Il cinema, grazie anche ad una spruzzata di elementi semi-autobiografici (il cicciotto quattordicenne che si prepara a diventare regista lavorando con una macchina da presa da 8mm non lascia spazio a dubbi) fa una passeggiata tra i paradigmi ossessivi di Spielberg. Con un reflusso culturale alla disco music permettendo (come viene detto, forse vale la pena rivalutarla per una bella ragazza!). Già pronto a fare incetta di nomination agli Oscar. Il cortometraggio sugli zombie del piccolo giovane regista viene mostrato nei titoli di coda ed è una ulteriore riprova del valore di questo Super 8, nonché una gustosissima chicca.

ERMINIO FISCHETTI

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