Ca’ Foscari: tra sogni e storie al femminile

Al Ca' Foscari Short Film Festival, alcuni lavori di animazione che lasciano spazio a visioni oniriche e opere che mostrano il corpo e la psiche femminile in continua mutazione.
Intervista a Caterina Shanta, regista di E’ troppo vicino per mettere a fuoco
Intervista a Emmanuelle Nicot, regista di Rae

Giornata intensa di proiezioni dei Corti Internazionali del concorso al Ca’ Foscari Short Film Festival, sia al mattino che al pomeriggio, intervallate da eventi speciali come il workshop: La musica disegna il cinema dove due docenti dell’Università, Roberto Calabretto e Giovanni De Mezzo, hanno proposto un excursus sulle sperimentazioni animate a partire da lavori di ‘pionieri’ come John e James Whitney, Norman McLaren, fino a quelli più recenti di Giuseppe Chiari (anni ’60), esponente del movimento “Fluxus”. La corrente esalta l’espressività del gesto e ogni nota ha un suo “flusso”. In alcuni frammenti del video artista italiano (tra questi alcune rarità come la performance al Concerto di Spoleto 1974), si può evincere come la gestualità di una mano racconti il dialogo costante con la tastiera del pianoforte, come la gestualità occupi tutto lo spazio.

Per raccontare il concorso partiamo dai due cortometraggi italiani, uno di fiction: Napoleone è pazzo di Davide Di Viesto e Federico Spiazzi dove Ernesto Mahieux interpreta un detenuto/attore, mai pentitosi per il parricidio compiuto 30 anni prima. Quando gli viene chiesto di tornare a recitare e di farlo per uno spettacolo teatrale sull’imperatore/condottiero francese, tutta la sua irascibilità emerge, facendo precipitare la situazione. L’ambientazione è priva di cura per i dettagli e tutta la narrazione è priva di originalità. L’intera opera è affidata all’efficacia espressiva dell’attore protagonista che porta alla ribalta una situazione esistenziale dolorosa, dove il testo teatrale esplicita la dolorosa condizione dell’uomo. Invece Caterina Shanta in E’ troppo vicino per mettere a fuoco, sviluppa sul tema del video-racconto proposto dal professore Marco Bertozzi, un lavoro di buon livello. Figlia di un militare americano vissuto anni a Pordenone, la ragazza ripercorre – attraverso vecchie foto, volutamente ignorate per anni in uno scatolone – il suo dolore di bambina abbandonata dal genitore in giovane e il momento dell’incontro con il nuovo compagno della madre, militare anch’egli. Il cortometraggio è il racconto in prima persona di un percorso doloroso nell’identità di una giovane donna, dove anche le diverse guerre degli ultimi 20 anni: dal Kosovo all’Iraq, hanno avuto un forte peso nel cambiare il corso della sua vicenda familiare. E se il concorso si sta tingendo sempre più di rosa, con storie forti, il lavoro di video-arte della regista coreana, studentessa in Francia Jung Hee Biann Seo, che mostra un corpo femminile imprigionato in un sacco nero, può esserne il manifesto per immagini e suoni (disturbati, metallici). Nel cortometraggio, un corpo in mutazione, espelle una sostanza filamentosa dello stesso colore dell’oggetto in cellulosa; un corpo che è violato e in evoluzione psicologica e fisica continua. Un corpo e una mente in ricerca, come quella dela protagonista di Ojos que no duermen di Leonardo Santana Zubieta, con protagonista una psichiatra che trova nel sogno di una paziente, la risposta anche ai propri incubi e capisce che deve tornare a dialogare col figlio malato che tormenta i suoi sogni. Sul gioco di rimandi compiuti dalla mente di una commessa un po’ annoiata si basa il divertente Vie de reve en promotion dell’autrice belga Ellen Salomé. Nel corto, incentrato sull’evasione divertita della giovane, si vedono quattro strani personaggi che poi, solo al termine della narrazione si scoprono essere  clienti abituali del negozio. Il tipo di metamorfosi che l’immagine dei quattro subisce, non è data solo dai nuovi gesti che compiono ma dal contesto di diverse luci e oggetti che l’immaginazione tinge di originalità. Dall’università danese il secondo lavoro in animazione della giornata: Vaesen di Adrian Dexter dove vengono riprese, in chiave attuale, le storie epiche dei principi della tradizione. Il protagonista è un giovane che, per salvare il padre dalla morte, inizia un viaggio negli abissi più oscuri e spaventosi. In un corto completamente privo di parole, alla colonna sonora particolarmente incisiva e originale è lasciato il compito di farci sentire tutta l’inquietudine presente nell’animo del ragazzo, fino a una svolta che permetterà l’evolversi del protagonista.

Ma il lavoro di oggi più sorprendente, dalla forte potenza narrativa ed espressiva è sicuramente Rae di Emmanuelle Nicot che, prima di tutto ha esplorato l’universo femminile di donne vittime di violenze, documentandosi, passando molto tempo in una casa di accoglienza a parlare con donne di diversa età e provenienza sociale. Poi ha scritto e messo in scena un’opera di finzione dove seguiamo l’evolversi della vicenda di una donna, Rae e della sua relazione con il compagno (o meglio con il telefonino attraverso il quale l’uomo continua a prevaricare), sia con un’altra ospite del centro – rude e dolce al tempo stessi. La donna al centro di rifugio da tempo, prova a guidarla in un percorso di ascolto di se stessa, di coscienza di sé e di rinascita. La regia si sofferma lungamente sul corpo della donna con ematomi evidenti. Si serve di obiettivi a lunga focale per raccontare con maggiore efficacia ogni mutamento interiore, perché i segni sul corpo di Rae creino profondo disturbo nello spettatore che non può distogliere lo sguardo o ignorarli. Perché ogni incapacità di compiere gesti quotidiani, racconti dei profondi segni lasciati nella psiche della protagonista. Colpisce la maturità della messa in scena, della regia così attenta ai dettagli con un uso della macchina da presa funzionale, soprattutto perché a realizzare il film è una giovane studentessa di 23 anni.