Grigris

In concorso al Festival il nuovo film di Mahamat-Saleh Haroun, che stavolta delude dandosi sorprendentemente a un racconto "turistico" sul suo paese, il Ciad.

Nel 1977 Rino Gaetano cantava “essence, benzina e gasolina / soltanto un litro e in cambio ti do Cristina / se vuoi la chiudo pure in monastero / ma dammi un litro di oro nero”: erano gli anni dell’inflazione altalenante, dell’aumento del debito nazionale e della concorrenza dei nuovi paesi esportatori di petrolio. 2013, Ciad, Africa centrale: un ragazzo che sopperisce all’impossibilità di utilizzare la gamba destra con le sue straordinarie doti di ballerino sogna di sfondare nel mondo dello spettacolo e di diventare una delle celebrità della capitale N’Djamena, ma si trova improvvisamente costretto a fare fronte al male che affligge l’amato zio. L’unico modo che il giovane Grigris – questo il suo nome – ha per rimediare il denaro è quello di entrare in combutta con un trafficante di benzina, bene primario di sussistenza in una nazione in cui la popolazione non ha praticamente nessuna possibilità di mettere le mani sull’oro nero: prima prova a far parte di una spedizione, ma non sapendo nuotare rischia di annegare durante l’attraversamento di un fiume, quindi viene reclutato come autista, ruolo in cui dimostra di sapersela cavare decisamente meglio. Ma non tutto filerà liscio, anche per via della relazione tra Grigris e una bella prostituta…

Già da questi brevi cenni sinottici è forse possibile cogliere con precisione il vero punto debole del film di Mahamat-Saleh Haroun, che torna a Cannes dopo gli elogi ricevuti nel 2010 con L’homme qui crie: laddove il suo cinema si è sempre contraddistinto per un lavoro incentrato soprattutto sulla disperata solitudine dell’uomo, sulla sua incapacità di interagire con l’ambiente che lo circonda e sui contrasti generazionali, Grigris non sembra mai veramente in grado di mettere a fuoco l’anima dei suoi protagonisti. Alle loro spalle si agita infatti sullo sfondo l’ectoplasma di un noir pretenzioso quanto talmente classico da apparire fin dalle prime battute prevedibile. I temi cardine del genere (l’amicizia virile, l’amore impossibile, la malavita, il senso di colpa) vengono messi in scena senza alcuna capacità innovatrice, come se dovessero bastare a loro stessi. Si assiste così a un accumulo di sequenze già viste, mentre il potenziale espressivo del protagonista, che con la sua disabilità avrebbe potuto catalizzare l’attenzione degli spettatori senza alcun ricorso artificioso a strategie narrative usurate, risulta inevitabilmente sprecato.

A tutto ciò si aggiunge un terzomondismo fastidioso, come se il desertico paesaggio del Ciad non fosse ripreso da un uomo nato e cresciuto nel paese, ma da un occidentale giunto per caso in Africa dopo aver attraversato il mare alla ricerca di nuove avventure esotiche. Il gioco si fa così scoperto che quando nel finale Haroun abbandona finalmente le dinamiche del noir e del gangster movie, fuggendo dalla città per spostare l’azione in una zona rurale, all’interno di un villaggio, Grigris viene scosso da un improvviso sussulto autoriale, in grado di ironizzare e di ricreare l’universo a disposizione senza esserne succube in maniera prona. Questa breve parentesi rinvigorita da una sorprendente vena femminista non riesce però a porre rimedio alle indecisioni, alla retorica e alla preoccupante postura occidentale del film.
Ripensando alle precedenti opere di Haroun e alla sua riflessione ideologica, vengono in mente le parole che Pasolini scrisse riguardo l’ipotesi di allestire un’Orestiade africana, e ai problemi inerenti a uno sguardo occidentalizzato su una realtà complessa come quella del continente nero: “Ma allora a chi lo avrei destinato, se non alle poche élites politicizzate che si interessano ai problemi del Terzo Mondo? Per estendere questo pubblico prevedibile, avrei dovuto fare un film ‘giornalistico’. È difficile trattare un argomento del genere in tutta tranquillità, sia sul piano ideologico che politico. Penso che ai marxisti ufficiali certe verità non sarebbero state del tutto gradite. Anche i contestatori a loro volta vi avrebbero trovato materia di controversia”.

RAFFAELE MEALE