La grande bellezza

In concorso a Cannes, Sorrentino compone un magniloquente e fascinoso apologo post-apocalittico su Roma e sul nulla odierno della società italiana.

Quello di Paolo Sorrentino è un cinema orgogliosamente senza tempo e che non percepisce necessità alcuna di portare sul grande schermo le ansie e le imperfezioni dell’Italia di oggi, le uniche cose che l’autore mira a celebrare sono il cinema e il suo talento d’autore. In terra anglosassone questo non sarebbe certo malvisto, ma dalle nostre parti, quando non si ama il cinema di Sorrentino è sempre – o quasi – perché gli si riconosce un’eccessiva egomania. Ma la sensazione, scorrendone la filmografia, è che la sua opera – specie nell’asfittico panorama odierno – sia da considerare come una rarità da proteggere e preservare.

Sontuosa e immaginifica, La grande bellezza sembra mirare a risvegliare nello spettatore quella fascinazione primigenia per l’immagine che caratterizzava il cinema delle origini, scavalcando a piè pari le strutture narrative convenzionali per inanellare una serie di folgoranti episodi, frammenti di un’avventura biografica – quella del protagonista – ma anche tessere di quel mosaico composito che è l’immagine condivisa della città di Roma. Vera e propria sinfonia urbana per immagini, discendente diretta di una pagina di storia della settima arte dimenticata e che vedeva nella pellicola di Walter Ruttmann Berlino – sinfonia di una grande città (1927) il suo esempio più cogente, La grande bellezza gioca fin dall’incipit con le attrattive turistiche dell’urbe proclamando nella sua ouverture visiva e musicale le sue intenzioni di dare un nuovo significato alla perifrasi abusata di “una Roma inedita”. L’ouverture cambia ben presto di tonalità e, al coro austero di voci femminili, sovrappone un lungo prologo discotecaro volto a introdurci nell’habitat naturale del protagonista, una fiera circense di creature improbabili, dove regnano il chiacchiericcio futile della presunta “intellighenzia”, la chirurgia estetica omologante e una goliardia di facciata. Come ampiamente previsto, La grande bellezza spreme fino all’osso l’immaginario felliniano mescolando La dolce vita a 8 e ½ a Roma, ma la sua non è affatto una celebrazione o se vuole esserlo è delle nobili vestigia di un passato irrecuperabile. I personaggi di La grande bellezza sono infatti una sorta di post-zombies dannunziani contemporanei, assetati di apparire e stupire, anche a costo di auto-fagocitarsi o di smarrire completamente la propria strada. In questa realtà infetta e putrescente essere vivi è un’oltraggiosa anomalia, come ben rappresenta l’incontro tra Jep e Ramona (Sabrina Ferilli), unico spiraglio di autenticità e non a caso anche unico episodio nel film che possieda un, seppur labile, tracciato narrativo.
Profondamente cinico e disilluso proprio come il suo protagonista La grande bellezza è infatti un apologo post-apocalittico sulla fine di ogni cosa che conta, dall’arte all’amore, alla narrazione, al senso.

DARIA POMPONIO