Le Passé

Nel suo primo film fuori dall'Iran Asghar Farhadi perde il potente sfondo politico-sociale dei suoi lavori precedenti, ma conferma tutto il suo talento visivo e soprattutto narrativo.

La natura opaca del passato è da sempre oggetto dell’indagine cinematografica e sotto le forme più differenti – da Memento di Christopher Nolan a L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais – essa costituisce una chimera ambita per autori dalle più diverse caratteristiche. Con un approccio spiccatamente filosofico unito alla per lui usuale maestria narrativa Asghar Farhadi in Le passé, presentato in concorso alla 66/esimo Festival di Cannes, intesse una incalzante indagine sul complesso presente di tre personaggi, lasciando il loro vissuto precedente a gridare inascoltato la sua verità nel fuori campo. Protagonista della prima pellicola girata fuori dall’Iran con produzione e ambientazione tutte francesi è una donna, Marie (interpretata dall’attrice di  The Artist Berenice Bejo), che ha appena fatto ritornare in Francia il marito iraniano (Ali Mosaffa) per poter formalizzare il divorzio e sposare il suo amante Samir (il protagonista di Il profeta Tahar Rahim). Ma una spirale inarrestabile di menzogne travolgerà l’aspirante coppia di sposi e le rispettive precedenti famiglie.

Motore immobile e inaccessibile del presente, il passato dei personaggi è costantemente tenuto ai margini del film: esso parla attraverso la voce alterata dei loro scontri verbali, ne scandisce di fatto ogni relazione umana, ma non può manifestarsi. Perché secondo Asghar Farhadi il passato coincide con il concetto di verità o quantomeno ne condivide l’amaro destino di inaccessibilità e ineludibile soggettività. Quello dell’autore iraniano è un cinema in tal senso – e lo conferma questo suo nuovo lavoro – estremamente umanista, capace dunque di setacciare i moti più intimi e le conseguenze delle loro azioni. Per il regista è come se i concetti, di cui l’uomo è principale specie portatrice, fossero tutti imprigionati sotto l’epidermide e i comportamenti sociali codificati; resta dunque impossibile coglierne la natura prima, possiamo solo osservarne le molteplici manifestazioni. Come già avveniva nei due film precedenti dell’autore distribuiti in Italia, About Elly e Una separazione, Farhadi affronta nuovamente il tema della bugia (e le questioni morali ad essa connesse) e le imprevedibili ripercussioni che questa può avere sulla vita di chi la pratica e su quella di coloro che lo circondano.

Manca inevitabilmente a Le Passé quell’elemento fondamentale di potente metafora politica sulle condizioni di vita in Iran che caratterizzava le sue precedenti pellicole. A troneggiare sullo schermo è infatti il dramma etico dei personaggi, ma fanno capolino anche questioni legate all’immigrazione (clandestina e non) e a una difficile comunicazione che però non è da intendersi come semplicemente interculturale ma appannaggio dell’umanità tout court. Perfetta e implacabile è dunque la sceneggiatura di Le passé che verbalizza nei dialoghi ogni sottile sensazione dei protagonisti pur rispondendo sempre a una macrostruttura netta, la cui complessa tessitura appare solo alla fine. Basti pensare al fatto che i dissidi su responsabilità e verità riecheggiano nei discorsi degli adulti così come in quelli dei bambini o ancor meglio a come l’intera storia parta da una email non ricevuta o forse mai scritta e vada poi a chiosare sull’enigma di un carteggio elettronico forse mai spedito, oppure inviato e non letto. Tutto si svolge e resta nella sfera del dubbio. Ma come l’autore ci ha già ampiamente dimostrato lo scopo principale del suo cinema risiede proprio in questo suo saper dare una forma così potente a ciò che è e resterà indistinto.

DARIA POMPONIO