Like Father, Like Son

Il regista giapponese Hirokazu Kore-eda racconta una storia di famiglie disgregate, riflettendo sull’eredità affettiva e biologica. In concorso a Cannes.

A prima vista i Nonomiya sembrano incarnare l’ideale stesso di famiglia: una coppia giovane, baciata dal successo professionale, con un adorabile bimbo di sei anni. Nonostante lo stakanovismo lavorativo del padre, tutto sembra procedere per il meglio fino al momento in cui l’ospedale in cui il piccolo Keita è venuto alla luce non convoca la coppia: a causa di un errore nel reparto maternità due neonati sono stati scambiati nella culla, e il bambino che hanno amato e accudito fino a quel momento non è in realtà il loro figlio biologico. Lo shock porta i Nonomiya dapprima a conoscere e frequentare la famiglia in cui è cresciuto il loro “vero” pargolo, e quindi a porsi degli interrogativi sul senso della paternità, e sulla necessità di operare nuovamente uno scambio che riporti il tutto al suo svolgimento “naturale”.

Basterebbe leggere la trama di Like Father, Like Son per rendersi conto di quanto essa rientri nel percorso autoriale compiuto da Hirokazu Kore-eda nel corso degli ultimi venti anni, o poco meno: da quando esordì alla regia di un lungometraggio con Maborosi (1995) – narrando la dolorosa elaborazione del lutto della giovane Yumiko in seguito alla morte del suo compagno, investito da un treno -, Kore-eda ha tracciato un percorso coerente, lineare, in cui la disgregazione familiare acquista un valore traumatico e terapeutico allo stesso tempo, specchio riflesso di una nazione complessa, stratificata, desiderosa di non lasciarsi estirpare le proprie radici culturali ma allo stesso tempo incapace di resistere alla tentazione dell’occidente capitalista. In questo senso il cuore pulsante di Like Father, Like Son, presentato in concorso alla sessantaseiesima edizione del Festival di Cannes, appare fin troppo chiaro: nel dubbio del capofamiglia Ryota, interpretato da un eccellente Masaharu Fukuyama, non si nasconde solo l’attrazione verso il sangue del proprio sangue, ma anche la necessità di difendere la propria linea genetica. In una nazione che ha vissuto il feudalesimo fino alla fine del Diciannovesimo Secolo, affrontare di petto una problematica di questo tipo presenta delle difficoltà oggettive che non possono essere sminuite con troppa leggerezza. Anche per questo il cinema di Hirokazu Kore-eda è riuscito a costruirsi una propria nicchia, riconoscibile e quasi inviolabile, all’interno della quale trovano spazio figli abbandonati, vedove, coppie divorziate, amare e dolorose vendette private.

Dal già citato Maborosi a Nobody Knows, da Still Walking a I Wish, passando per After Life e Air Doll, il cineasta nativo di Tokyo è riuscito a portare sullo schermo uno spaccato sincero e appassionante del Giappone contemporaneo, dando una nuova interpretazione al genere del gendaigeki e giustificando i parallelismi critici che fin dalle prime sortite dietro la macchina da presa lo hanno apparentato a Yasujiro Ozu e Kenji Mizoguchi. Con Like Father, Like Son Kore-eda firma una delle sue opere più mature e complesse, sia per lo studio dei personaggi secondari che, ancor più, per la rappresentazione di un mondo infantile che non è più contrapposto a quello adulto (come in Nobody Knows, per esempio), ma cerca sempre una ardua interrelazione. Da un punto di vista meramente estetico Kore-eda conferma la propria eleganza, sia nell’utilizzo del piano sequenza che nei brevi e sempre essenziali movimenti di macchina, tesi alla ricerca di un dettaglio mai prevedibile o banale. Ma il vero punto di forza del nono lungometraggio di Kore-eda risiede in una scrittura elaborata eppure al contempo immediata, stratificata e semplice da decodificare, ricca di dialoghi brillanti e credibili e di sequenze di fronte alle quali appare davvero impossibile trattenere le proprie emozioni. All’interno di un percorso estetico perfettamente autoriale, Like Father, Like Son trova il modo di dare sfogo a tutte le proprie velleità popolari, costruendo un affresco umano in grado di lasciare senza fiato. Nei piovosi primi giorni di Cannes, un raggio di luce salvifico.

RAFFAELE MEALE