Manto Acuífero

Il film è un'opera piccola e delicata, che ritrae con stile essenziale la solitudine di una bambina che cerca (disperatamente) di non cancellare il ricordo del papà.

Ci sono film a cui basta poco per raccontare un grande dolore, una di quelle sofferenze così forti che non si riescono a verbalizzare. Manto Acuìfero, del regista australiano Michael Rowe, si fa carico in tutto e per tutto della vita di Carolina, una bambina di sei anni che da poco si è trasferita con la mamma e il suo nuovo compagno. La bimba soffre ancora per il divorzio dei genitori e reagisce alle attenzioni della madre rifugiandosi in solitudine nel giardino, studiando gli insetti come faceva il papà entomologo (anzi, forse proprio per sentirlo vicino), giocando con dei pezzi di legno e con le galline. In certi momenti si isola, in altri sembra pronta per farsi sorprendere da qualcosa di nuovo. Quando la mamma le legge le favole, prima di addormentarsi, tutto appare perfetto, tranne per quella voglia incredibile di rivedere e riabbracciare il padre. Caro non riesce a far finta di niente, così un bel giorno prende le foto del papà, che la madre aveva gettato via per non urtare la suscettibilità del compagno geloso, e le porta in fondo ad un pozzo non lontano da casa. Ne pulisce il pavimento, lo arreda con i suoi disegni fantasiosi (c’è anche un leone viola), lo trasforma in un luogo tutto suo. Quando viene scoperta dal patrigno furibondo, Caro reagisce distruggendo quanto di più prezioso era riuscita a trovare.

Manto Acuìfero è un’opera piccola, delicata, che ritrae con stile essenziale la solitudine di una bambina che cerca (disperatamente) di non cancellare il ricordo del papà. Caro non ha amici e, quel che è peggio, viene costantemente ignorata dalla madre, che preferisce crederla felice nella nuova casa, con il nuovo compagno, piuttosto che interrogarsi sui silenzi della figlia, le sue paure, le sue richieste. Rowe, vincitore della Camera d’Or a Cannes nel 2010 per Año bisiesto, mette la macchina da presa all’altezza dello sguardo della sua bravissima protagonista, Zaili Sofia Macias; è lei la presenza centrale di ogni singola inquadratura, lei con la vocina flebile e il bisogno di affetto. Si potrà obiettare che manchi quella scintilla che faccia palpitare, trepidare, ma la verità è che è questa semplicità ad essere scintilla e se il finale tramortisce noi spettatori per la sua repentinità è solo perché Caro reagisce con rabbia ad una violenza gravissima, che non sono gli spintoni e gli strattoni del patrigno, ma l’incursione nel suo territorio, nel suo privato, in quel luogo segreto dove la memoria si conserva e si ricrea. Certo, è un epilogo nero, anzi disperato e lascia l’amaro in bocca.

Francesca Fiorentino per Movieplayer.it Leggi