Nebraska

Padre e figlio on the road alla ricerca del grande sogno americano: con il suo nuovo film, in concorso a Cannes, Alexander Payne firma una variazione dei temi cari alla sua poetica; tutto è grazioso, malinconico, ma anche già visto.

Il denaro: la prima, l’unica, la definitiva grande icona americana. Oggetto paradossale per la sua stessa essenza: eternamente riproducibile ma estremamente prezioso. Per la nostra cultura di stampo cattolico rappresenta qualcosa di malvagio, capace di corrompere e sporcare anche l’anima più pura. Ma per gli anglosassoni protestanti i soldi sono la riprova tangibile del successo e, com’è noto, della benevolenza divina. Intorno a questo concetto ruota il nuovo film del re della commedia indie statunitense Alexander Payne, Nebraska, presentato in concorso a Cannes. L’autore di Sideways e A proposito di Schmidt riprende ancora una volta tematiche e percorsi narrativi cari al suo cinema per declinarli nella parabola ironica e velata di melanconia di due personaggi on the road, alla ricerca del grande sogno americano. Sogno che ha già però – e forse da tempo immemore – il sentore acre della truffa. Quando infatti l’anziano e vagamente arteriosclerotico Woody Grant (un maestoso Bruce Dern) riceve per posta un volantino che gli annuncia la vincita di un milione di dollari, si mette in testa di viaggiare dal Montana fino al Nebraska per incassare il premio. Ad accompagnarlo sarà il mite e non più giovane figlio David (Will Forte), persuaso che la follia paterna si possa guarire soltanto assecondandola, perché sognare di diventare ricchi non può fare che bene.

Girato in perfetto stile indie con un ritmo intermittente che alterna gag comiche e momenti riflessivi, squarci paesaggistici di un’America senza tempo e i classici interni dei diner di provincia, Nebraska è quasi la summa dell’opera del suo autore e in questo c’è da intendere però che la poetica di Payne, in questo caso, non fa alcun passo in avanti. Splendido il bianco e nero fotografato dall’abituale collaboratore del regista Phedon Papamicheal il cui obiettivo sembra essere quello di omaggiare le immagini catturate dal maestro Robert Surtees per L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich; lì in fondo si raccontava la fine di una sala cinematografica e della giovinezza qui, invece, la perdita di lucidità di un uomo.
Nebraska procede dunque inanellando icastiche scenette di impianto frontale (sembrano un teatrino messo in scena apposta per compiacere lo spettatore) dove si deridono sogni e smemoratezze senili, i fasti di un passato irrecuperabile e si cerca il plauso con battute e situazioni di facile presa. Manca inoltre del tutto la critica a quelle operazioni di marketing che promettono imponderabili ricchezze, ma poi infrangono i sogni di chi abbocca al loro canto di sirene concedendo magari soltanto un gadget brandizzato, utile a ricordare che comunque non si è vinto niente. Dal viaggio come strumento di conoscenza reciproca e confronto esistenziale, al rapporto padre-figlio, alla solitudine rancorosa della vecchiaia, Alexander Payne saccheggia ampiamente il suo cinema e realizza con Nebraska una variazione sul tema ben (e furbescamente) confezionata, in grado di catturare il plauso di un vasto pubblico. A patto però che tra gli spettatori non ci siano anche degli assidui frequentatori della sua filmografia, per loro va in scena soltanto un’altra replica.

DARIA POMPONIO