No habra paz para los malvados

Un poliziesco cupo e serrato che sfiora importanti questioni politiche: dal G20 al terrorismo islamico. Al Festival del cine español il film trionfatore ai Goya 2012. Le nostre interviste al regista Enrique Urbizu e al protagonista José Coronado.
Intervista al regista Enrique Urbizu
Intervista al protagonista José Coronado

Il genere poliziesco e i suoi codici ben si adattano a trasporre sul grande schermo le tensioni e i tumulti di una realtà, come quella contemporanea, sempre più veloce e sfuggente. Lo sa bene e lo ha messo in pratica con limpido talento visivo, il regista basco Enrique Urbizu che con il suo No habrá paz para los malvados ha trionfato a sorpresa ai premi Goya di quest’anno, accaparrandosene ben 6, compresi miglior film, regista e attore protagonista. Presentata in anteprima italiana alla quinta edizione del Festival del cine español, la pellicola di Urbizu non concede molto sul piano del racconto, preferendo adottare uno stile semi-documentaristico che ci catapulta al fianco del protagonista in una Madrid distratta e confusa: lo scenario perfetto per oscuri traffici di droga, esplosioni di violenza e trame ordite dal terrorismo islamico internazionale.

Riflessione dolente sulla paura e sul clima di sospetto che hanno colpito la Spagna in seguito agli attentati terroristici del 2004, No habrá paz para los malvados schiva abilmente ogni interpretazione della realtà che ci mostra, preferendo riversare dallo schermo una serie di domande, sulla politica internazionale (i televisori accesi che parlano del G20 in corso), sulle forze dell’ordine e la loro corruzione, su una giustizia vessata da malsani meccanismi burocratici che le impediscono di fare il suo corso. Labile è la dicotomia tra personaggi “buoni” e “cattivi”, assenti le sottolinature degli snodi narrativi, per meglio trascinarci dritti nell’universo contorto del protagonista: un poliziotto semialcolizzato, uso ai metodi violenti, ben determinato a proseguire le sue indagini a qualunque costo. Pluridecorato, ma relegato alla sezione persone scomparse per cattiva condotta, Santos Trinidad (interpretato magnificamente da José Coronado) esordisce nei primi minuti del film con l’omicidio a sangue freddo di tre persone in un night club poi, partito all’inseguimento di un testimone oculare, si ritrova a svelare le trame che collegano un traffico di droga con una cellula terroristica islamica pronta a colpire. Sguardo luciferino, volto stropicciato dall’alcol e da un passato che viene sottratto alla nostra conoscenza (scopriamo a un certo punto che ha una figlia, poi nulla più) Santos si offre con riluttanza all’identificazione spettatoriale. E lo stesso si può dire del suo alter ego “legale”, ovvero l’algida PM Chacón (Helena Miquel), anche per lei, l’unico residuo tratto di umanità è legato al suo essere anche madre.

Pellicola poco conciliante e orgogliosamente ambigua, No habrá paz para los malvados, rifugge con forza a letture ideologiche e relega a distanza ogni questione politica: del G20 in corso ci giungono solo gli echi e l’apparizione di Berlusconi sulla sua Telecinco la dice lunga sullo iato incolmabile tra la realtà e chi dovrebbe governarla. Forse un po’ troppo innamorato del suo protagonista, Urbizu scivola però in più di un’occasione in un’eccessiva idealizzazione del suo antieroe: lo lascia troneggiare sullo schermo o lo immortala in pose eccessivamente icastiche, che mal si accordano allo stile crudo e calcolato delle sequenze action. La simbologia cristologica che si accompagna a questa glorificazione appesantisce poi il tutto sfiorando lo schematismo: Santos Trinidad (la santa trinità, simbolo del cristianesimo) vs l’Islam.