Nobody Owns Me

"Nobody Owns Me" è un realistico (melo)dramma familiare, dispiegato sullo sfondo di una società, quella svedese del welfare state, che vende benessere e felicità come vuoti prodotti da supermarket.

Figlia della classe operaia svedese negli anni ’80, la piccola Lisa si trova improvvisamente a far fronte al divorzio dei suoi genitori. Entrambi sono imbevuti di ideali rivoluzionari e sentono profondamente la propria condizione di proletari in una società ingiusta; ma Hasse ha problemi di alcolismo che col tempo si fanno sempre più gravi, mentre Katja gli confessa di essere innamorata di un altro uomo. Rimasta da sola con suo padre, Lisa rinsalda sempre più il legame con quest’ultimo, abbracciandone anche le idee e il modo di vedere il mondo; ma le difficoltà economiche costringono sempre più spesso Hasse a chiedere aiuto ai suoi genitori, mentre la sua tendenza al bere inizia a mettere seriamente a repentaglio la sua salute fisica. Lisa, lacerata tra l’amore per suo padre e il sogno di una vita normale, inizia a pensare a quale possa essere la soluzione migliore per il suo futuro.

C’è un momento dalla forte valenza simbolica, all’inizio di Nobody Owns Me, ultimo lavoro del regista svedese Kjell-Åke Andersson: è quello in cui il prologo, in cui si vede la festa di laurea di una Lisa ormai adulta, lascia il passo al racconto, in flashback, della sua infanzia nei quartieri poveri della metropoli svedese, accanto a suo padre. I colori desaturati della fotografia si accendono nel ricordo del passato, specie nel rosso di quella fonderia che, per il combattivo Hasse, rappresentava contemporaneamente l’inferno quotidiano e la fonte di sostentamento. Un fuoco acceso e bruciante, che simboleggia anche la consistenza di sogni e ideali tenacemente perseguiti, nonostante le difficoltà e le angherie subite. C’è il fantasma di Ken Loach che si agita sullo sfondo, nel film di Andersson; ma c’è anche (e soprattutto) il melodramma familiare, lo spietato resoconto della vita di un uomo ferito, piegato ma mai spezzato, in una società che predica uguaglianza e offre, sotto la patina del welfare e delle opportunità, egoismo ed indifferenza.

Ma non siamo di fronte a un film a tesi, poiché al regista svedese interessa il rapporto intessuto da Lisa con un genitore di cui la ragazza intuisce lo spessore umano, e che non smette di amare neanche dopo una necessaria separazione. La descrizione di una società ingiusta, ancor più ipocrita nella sua pretesa di offrire una felicità fallace, venduta come un prodotto da supermarket, è offerta allo spettatore in modo indiretto, filtrato dallo sguardo segnato, ma fiero, di Mikael Persbrandt, e dagli occhi delle tre diverse attrici che, con uguale efficacia, interpretano Lisa nei tre periodi ritratti dal film. La sceneggiatura, ispirata ad un romanzo della scrittrice Åsa Linderborg, isola padre e figlia in un rapporto che, finché possibile, fortifica e protegge entrambi; come la barca ferma in rimessa, e mai usata, che nelle fiabesche narrazioni di Hasse avrebbe dovuto condurre la famiglia, intera, verso una Cuba idealizzata, approdo simbolico di una felicità che non è solo economica. Un’utopia il cui valore, negli occhi dell’adulta Lisa, non vediamo mai venir meno.

Il registro usato da Andersson, per raccontare questa storia di affetti non logorati dalla spietatezza della vita, è essenzialmente quello del melò; melò che contrasta col gelo, fisico e metaforico, di una metropoli sempre più indifferente, e che per dispiegarsi si affida, più che al tono del racconto, agli sguardi e ai non detti dei suoi protagonisti. Ciò che è apprezzabile, nella costruzione narrativa del film, è soprattutto l’assenza di uno sguardo giudicante nei confronti dei personaggi: il racconto evita di emettere valutazioni morali sulle scelte di chicchessia, comprese quelle di una madre (a cui dà il volto un’ottima Tanja Lorentzon, già vista nella saga dei vari Millennium) con cui al contrario non si fatica a empatizzare. I conflitti, vissuti dai protagonisti proprio malgrado, quasi come pegno da pagare alla sopravvivenza, in quello che non è il migliore dei mondi possibili, possono e devono trovare una ricomposizione. Questo non cambierà certo il mondo, ma permetterà di assaporare, nel proprio microcosmo, un grammo di quella felicità fantasticamente sognata, alla quale mai bisogna smettere di tendere.

Marco Minniti per Movieplayer.it Leggi