Norte, the End of History

A Cannes, nella sezione Un certain regard, il cineasta filippino Lav Diaz porta l'ennesimo geniale e lucido ritratto della sua terra, senza valori morali e preda di ricatti e sfruttamenti dai toni dostoevskiani.

Quindici lungometraggi per quasi settanta ore di visioni. Può apparire bizzarro dare il là a una disamina critica puntando l’accento sulla “lunghezza” delle opere di un dato autore, ma sarebbe futile affrontare un regista come Lav Diaz senza riflettere in maniera seria sul senso che il Tempo acquista all’interno della sua poetica. Da quando esordì con The Criminal of Barrio Concepcion nell’oramai lontano 1998, il cineasta filippino ha scavato un solco profondo nella concezione stessa di narrazione, riscrivendo in qualche modo il valore da attribuire a un termine come lungometraggio. Senza mai dimenticare per strada un gusto per il racconto articolato e in qualche misura persino “popolare”, Diaz ha annichilito il pubblico festivaliero con titoli fondamentali come Death in the Land of Encantos (9 ore), Melancholia (7 ore e mezzo), Evolution of a Filipino Family (quasi 11 ore), Century of Birthing (6 ore).

Anche per questo motivo, tra gli aficionados del suo cinema, in molti hanno ironizzato su Norte, the End of History (titolo internazionale scelto per rimpiazzare l’originale Norte, hangganan ng kasaysayan), considerandolo alla stregua di un cortometraggio, visto che stavolta la sua durata è di “appena” quattro ore e dieci minuti. Facezie a parte, l’ultima fatica di Diaz non fa che confermare l’assoluta necessità del suo cinema: in un panorama contemporaneo che, anche negli anfratti più indipendenti, corre seriamente il rischio di omogeneizzare la propria proposta, la totale libertà espressiva che domina le opere di Diaz – mai dimentica di un profondo rigore estetico – rappresenta lo scacco matto, gesto rivoluzionario che scardina le certezze di chi vi si confronta.
In questo senso Norte, the End of History, potrebbe rappresentare un nuovo punto di partenza nel rapporto tra Diaz e il suo pubblico: al di là di un minutaggio senza alcun dubbio più abbordabile, per quanto ancora ben distante da quella che viene considerata la norma, è l’estetica stessa del film a supportare tale ipotesi.

Innanzitutto si tratta di un film a colori, rarità per un regista che da sempre predilige la fotografia in bianco e nero (fanno eccezione il già citato esordio, Burger Boys, Hesus the Revolutionary, Heremias: Libro Primo e in parte Batang West Side): una scelta che, unita a una produzione più ufficiale rispetto a quelle dei film precedenti, costringe il regista a non occuparsi in prima persona della direzione della fotografia, affidata a Lauro Rene Manda, che costruisce l’immagine con colori quasi iperreali, densi, lavorando in maniera certosina sui contrasti di luce. Una fotografia che sintetizza al meglio l’umore generale di un film in cui Diaz ragiona una volta di più sulla crisi dell’intellettuale, sulla distanza evidente tra quest’ultimo e il proletariato, sulla perdita di valori morali di una nazione ammaliata dal demone del consumismo, da un capitalismo all’apparenza lussureggiante ma in realtà dedito alle più bieche turpitudini.

Una realtà palesata senza troppi giri di parole dalla storia narrata in Norte, the End of History: Fabian è un intellettuale, figlio di una famiglia di proprietari terrieri, che non riesce ad accettare lo stato di degrado in cui versa la propria nazione. Quando però uccide l’usuraia alla quale doveva una cospicua somma di denaro, l’uomo non fa nulla per redimersi, lasciando che al suo posto venga imprigionato Joaquin, uno degli “ultimi” della società, con tanto di famiglia a carico. Una trama dai toni dostoevskijani, che Lav Diaz tratteggia con uno stile folgorante, carico di pulsioni umorali sempre sul punto di esplodere sullo schermo. Come già accaduto nelle opere precedenti, a stasi dialettiche anche piuttosto articolate – si prenda l’incipit nel bar – fanno seguito improvvise deflagrazioni di violenza. Esemplare il lungo crescendo finale, in cui il senso di colpa di Fabian raggiunge il proprio apice, in un abisso di violenza, rabbia, frustrazione e disperazione che lascia senza fiato. Simbolo di un cinema essenziale e vitale, indomito al punto di non accettare compromessi particolari, fedele all’idea che l’arte rappresenti la ricerca eterna della libertà.

RAFFAELE MEALE