Romancing in Thin Air

Il maestro dell'action hongkonghese Johnnie To si avventura - e si perde - in un melodramma montano poco convincente. Presentato in anteprima al Far East Film Festival di Udine.

“Un film per l’industria e uno per se stessi”, era questo lo slogan con cui gli autori della New Hollywood motivavano le loro sortite nell’entertainment più puro, ed è un motto sul quale il cineasta e produttore hongkonghese Johnnie To ha basato la sua prolifica carriera (67 le pellicole uscite dalla sua factory, la MilkyWay Image, fondata con il sodale Wai Ka-fai, di cui oltre 50 da lui dirette). Apprezzato a livello internazionale per pellicole action di magistrale fattura, ricche di virtuosismi sia stilistici che narrativi, To si è da sempre dedicato, senza però raggiungere i medesimi risultati, anche alla commedia romantica, realizzando prodotti dal gusto patinato, le cui ingenuità narrative li rendono però assai graditi al pubblico della Cina continentale.
Appartiene a questo filone della sua produzione anche Romancing in Thin Air, melò ad alta quota presentato in anteprima alla 14esima edizione del Far East di Udine che, vero e proprio scopritore del talentuoso regista, gli ha consegnato quest’anno il prestigioso Gelso d’Oro alla carriera. Abbandonati dunque i ritmi frenetici e la riflessione sulla crisi mondiale vista nel precedente film, l’interessante Life Without Principle, presentato a Venezia 2011, Johnnie To si dedica questa volta a un delicato intreccio di vicende drammatiche sospeso tra il serio e il faceto, ma pericolosamente tendente verso la prima categoria.
Protagonista e motore delle vicende è qui il carismatico divo Michael Lau (Louis Koo) che, dopo essere stato scaricato sull’altare da una fascinosa collega, cade in una spirale di alcol e autodistruzione che lo porta a rifugiarsi in una baita remota nella regione di Shangri-là. A differenza di quello che evoca il nome esotico e fiabesco del luogo, il resort montano non è affatto una dimora di letizia e benessere, bensì proprietà di una giovane donna, Sue (Sammi Cheng), che attende da anni il ritorno del marito scomparso nei boschi. Rimasta l’unica a credere nelle capacità di sopravvivenza del compagno, Sue amministra il luogo – che però è privo di clienti – insieme a due buffe e ipercinetiche fanciulle.
Tra gag giocate sulla celebrità del protagonista maschile e innumerevoli incidenti stradali che coinvolgono i personaggi su una vasta gamma di mezzi di locomozione (auto, camion, moto, ape), il film scorre placido, virando però sempre più verso il melodramma. Il modello è quello hollywoodiano, ma non quello classico alla Douglas Sirk, bensì la versione più recente e patinata in stile Come un uragano. La trama ricorda però quella del sottovalutato dramedy Litigi d’amore (sarà anche colpa del titolo italiano, l’originale The Upside of Anger era assai più ficcante), dove la come al solito eccellente Joan Allen riversava sulle figlie e sul rude vicino (un ottimo Kevin Coster) tutta la rabbia per la scomparsa del marito, secondo i suoi sospetti dovuta a una scappatella, in realtà causata dal suo decesso, proprio nel vasto giardino di casa. Ma a differenza del film di Mike Binder, Romancing in Thin Air manca di una sapida scrittura dei dialoghi così come di costrutto e scivola via senza scossoni – se si eccettuano gli incidenti succitati – senza mai lasciare il segno. Johnnie To si ritaglia però qualche interessante momento di satira sullo star system hongkonghese, cinico, kitsch e sempre più prono ai gusti della Repubblica Popolare. Al punto che, quando il divo torna all’ovile e decide, per sdebitarsi, di realizzare un film basandosi sulla storia vera della bella Sue – e debuttando con esso alla regia, portando dunque idealmente a termine la sua parabola evolutiva – la storia vera si scioglie in un posticcio happy ending. Una meta-concessione dunque, per Johnnie To, ai gusti del vasto pubblico pan-cinese.