Salvo

Un elegante gangster movie gravato da un eccesso di autorialità: è l'esordio, comunque rimarchevole di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, vincitore del Gran Premio della Giuria alla Semaine della Critique del 66/esimo Festival di Cannes.

Da qualche anno si dibatte, in incontri e convegni dedicati, sulla necessità di un ritorno al cinema “di genere” italiano, ovvero a quegli esempi di prodotti a basso budget ma di pregevole fattura che in passato spaziando tra l’erotico, il poliziesco, il western, il giallo e naturalmente la commedia, riuscivano ad intercettare i favori del grande pubblico e (soltanto) oggi gli auspici della critica. Non può dunque che far piacere scoprire in Salvo, opera prima di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, vincitore del Gran Premio della Giuria alla Semaine della Critique del 66/esimo Festival di Cannes, lacerti di quel cinema mai abbastanza rimpianto, incastonati in un mix che spazia dalll’action, al romance, al western ma su cui rischia di prevalere un po’ troppo il versante “film d’autore”.

La storia è quella di Salvo (l’attore palestinese Saleh Bakri), killer al soldo della mafia che, caduto in un’imboscata, insegue uno dei suoi assalitori per farsi dire l’agognato nome del mandante. Individuato il nemico si reca presso la sua magione, ma qui, intenta a contare banconote e svolgere lavori domestici al suono del pop-rock dei Modà, trova solo Rita (Sara Serraiocco), la sorella non vedente dell’uomo, che una volta rientrato non mancherà di freddare. Il tafferuglio e il conseguente omicidio del fratello provocano in Rita uno shock tale da restituirle progressivamente la vista. Salvo la lascerà in vita, ma la condurrà in un vecchio stabilimento industriale dove col tempo i due impareranno a conoscersi e forse anche ad amarsi. Ben diretto e interpretato (eccezionale la performance della giovane esordiente Sara Serraiocco nei panni di Rita) Salvo vanta referenti cinefili “di genere” alti che spaziano dal cinema di John Woo (il riferimento a The Killer nel concept narrativo della ragazza che qui invece di perdere la vista la riacquista è supportato dall’apparizione nell’incipit della colomba, presenza costante nei film dell’autore hongkonghese) al polar francese alla Melville (il protagonista tormentato, solitario e silenzioso) fino alla direzione millimetrica e sontuosa dell’azione che caratterizza il cinema di autori del calibro di William Friedkin e Brian De Palma e che si esprime in un folgorante inseguimento iniziale e, soprattutto, nell’elaborato intreccio di long shot che segna il primo contatto tra i due protagonisti. Vero e proprio tour de force stilistico calcolatissimo e avvincente – la tensione è esasperata dal fatto che Rita non può vedere l’assassino – quella sequenza vale già da sola la visione della pellicola, che in seguito si rilassa su tempi più dilatati e rarefatti, affidandosi all’indecisione intimista del suo silente protagonista. Viene infatti fin troppo ritardato il sorgere della relazione tra Salvo e Rita, intervallata com’è da intermezzi grotteschi riguardanti la stramba vita domestica dell’uomo, ospite servito e riverito di due coniugi interpretati da Giuditta Perriera e Luigi Lo Cascio. Una resa dei conti del protagonista con il suo austero boss (Mario Pupella) ha invece il sentore di un duello western, ma la tensione si scioglie presto in un nulla di fatto. La contaminazione tra generi non funziona dunque sempre a dovere, ma in ogni caso Salvo costituisce un esempio raro di cinema italiano in grado di lottare contro quel livellamento dei generi che fa della commedia a sfondo sociale la regina incontrastata di una cinematografia da anni in crisi non solo economica, ma anche di idee.

DARIA POMPONIO