The Gatekeepers – I guardiani di Israele

Documentario dallo stile molto classico, il film di Dror Moreh vede per protagonisti i più recenti direttori dell'intelligence israeliana, lo Shin Bet, rievocando così la controversa storia d'Israele. Una testimonianza preziosa, che avrebbe però potuto essere più ficcante.

Molto debitore – stilisticamente e, se vogliamo, anche politicamente – verso certo cinema documentario americano (in primis, i film Errol Morris), The Gatekeepers – I guardiani di Israele – diretto da Dror Moreh – cerca di indagare gli aspetti più oscuri della storia di Israele dando voce ai più recenti direttori dell’intelligence per gli affari interni, lo Shin Bet. Si tratta senz’altro di una conquista notevole – come del resto recentemente ha fatto lo stesso Morris intervistando Donald Rumsfeld in The Unknown Known – visto che sull’argomento fino a poco tempo fa in Israele vigeva il segreto di Stato e, soprattutto, considerando la ritrosia dei sei intervistati nel parlare e riflettere sul proprio operato.

Il risultato però – come spesso capita in queste occasioni, e come in fin dei conti accadeva anche in The Unknown Known – non arriva ad appagare fino in fondo le curiosità dello spettatore. Se ne vorrebbe sapere di più infatti e, forse soprattutto, sui titoli di coda, ci si domanda se l’intervistatore/regista Dror Moreh non avesse potuto e dovuto essere più incalzante nei confronti dei suoi riottosi interlocutori.
I cruciali episodi storici della vita del giovane Stato israeliano vengono rievocati seguendo un filo grosso modo cronologico: si passa dalla guerra dei Sei Giorni nel 1967 all’invasione del Libano nel 1978, per passare alla strage dei palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila, fino ad arrivare all’omicidio di Yitzhak Rabin e, infine, al presente sempre più confuso e incerto. Quel che però spesso manca in queste reminiscenze sono gli affondi e la complessiva rimessa in discussione di certe scelte che, nelle parole dei più alti dirigenti dello Shin Bet, trovano sempre più o meno una giustificazione.

Perciò, The Gatekeepers soffre di una certa superficialità e forse anche di una comprensibile forma di rispetto verso queste figure cardine della storia d’Israele, una sorta di ambivalenza – forse anche involontaria – che finisce per avvilupparsi in un discorso contrastante, tra la condanna e l’ammirazione. Un discorso che procede in modo superficiale anche per colpa di una regia e di una scrittura troppo classiche: le riprese frontali degli intervistati si alternano a materiale di repertorio di non straordinaria levatura e a un gioco visivo che mette in scena, in modo abbastanza banale, mirini e obiettivi in movimento.
La dialettica politico/spionistica sembra vincere insomma in The Gatekeepers – ma anche in The Unknown Known – nei confronti della dialettica cinematografica, grazie a una attentissima esposizione linguistica degli intervistati, a una loro superiore capacità diplomatica e anche grazie all’evidente faccia tosta di cui, a tratti, fanno mostra. Appare per esempio paradossale e beffardo che nel momento in cui Moreh cita uno scritto di Yeshayahu Leibowitz, intellettuale radicalmente critico nei confronti delle aggressive politiche israeliane, uno degli interlocutori gli risponda di condividere quei ragionamenti di condanna, pur sapendo benissimo che durante la sua carriera ha operato in modo esattamente opposto.

I pochi momenti spiazzanti arrivano da due degli intervistati, Avraham Shalom, che diresse lo Shin Bet nella prima metà degli anni Ottanta, e Ami Ayalon, che ricoprì lo stesso ruolo tra il ’96 e il 2000. Il primo è l’unico a scatenare apertamente l’indignazione del regista dichiarando che “di fronte al terrorismo non c’è moralità” e che dunque l’episodio in cui vennero uccisi per esecuzione dei palestinesi (che presero in ostaggio i passeggeri di un bus nell’84) va ritenuto negativo solo perché la stampa ebbe l’occasione di documentarlo, altrimenti sarebbe stato un perfetto atto di difesa dello Stato. Al contrario Ayalon è l’unico a mettere apertamente in discussione le politiche degli ultimi cinquant’anni e il suo commento finale non può che lasciare sconcertati di fronte alle prospettive future: Israele, pur vincendo ogni battaglia, continua a perdere la guerra, una guerra che si gioca su tempi lunghissimi, sul giudizio internazionale, sulle coscienze sempre più scosse degli arabi e sulla costante, crescente e drammatica paura degli israeliani di perdere la loro terra.

Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi