Carlo Monni: istinto, rabbia, poesia

A 70 anni ci lascia Carlo Monni, "poeta post-industriale", sodale di Benigni agli esordi, figura costante del nostro cinema.

“Tu mi garbi, antilopa!”. C’è un Italia creativa e sempre più lontana, sbrindellata e incredibilmente libera sul piano espressivo. E’ l’Italia degli anni Settanta, soprattutto della seconda metà del decennio, quando il conflitto sociale tocca vette da guerra civile, il potere DC è opprimente come non mai, un paese tetro e oscuro nelle sue istituzioni, e al contempo si mettono in atto scatenate sperimentazioni espressive in tutti i settori audiovisivi: tv private, radio libere, teatro off, cinema indipendente. In questo contesto così vivo e fertile viene formandosi la figura di Carlo Monni, artista di difficile definizione, spesso identificato come “poeta contadino” ma in realtà personalità più ampia e poliedrica. Semmai, poeta post-industriale. Tra i fenomeni che si affermano grazie alla libertà espressiva anni Settanta trova posto infatti anche la riscoperta di un mondo arcaico e a suo modo feroce, fatto di archetipi e modernità. Carlo Monni ha contribuito a questa riscoperta, tramite la definizione di una figura umana sanguigna e sanamente aggressiva come poche altre. Da un lato c’è il Monni dell’ottava rima e degli stornelli, quello dedicato alle arti nobili della poesia orale; dall’altro, il Monni dello scatto isterico, della rabbia feroce, dell’aggressione a un mondo cattivo che si merita solo di essere aggredito. La Toscana è terra di cattiverie, di crudeltà e ridanciana sopraffazione. In quegli anni gli istinti primordiali si mescolano alla rapacità post-industriale, anche tra i contadini e i proletari. Così Carlo Monni, nei panni del leggendario Bozzone in Berlinguer ti voglio bene (1977) di Giuseppe Bertolucci, tratta la compravendita della madre di Benigni, la povera Alida Valli, attempata e scompigliata “antilopa” che scatena insopprimibili voglie.

Così, la provocazione off contro il mezzo televisivo si riconverte nell’ambientare una striscia quotidiana in una stalla con tanto di mucche: “Onda libera” o “Televacca”, in cui la coppia Benigni-Monni si fece conoscere alla platea nazionale incredibilmente tramite i canali Rai. Qualcuno può immaginarsi un programma simile sulla Rai di oggi? Da lì in poi Carlo Monni è stato una presenza costante nel cinema italiano. Nessuno ha mai avuto il coraggio di affidargli un ruolo da protagonista, ma la sua filmografia è lunghissima, e d’altra parte la sua figura non ha mai postulato la possibilità di stare al centro di un discorso filmico. Impossibile immaginarsi il Monni alle prese con le ferree regole di una storia scritta e pettinata, in cui muoversi con vere responsabilità narrative. Sarebbe stata una violenza alla sua natura di performer. Perciò ci ritroviamo con l’imbarazzo della scelta tra piccoli ruoli uno più indimenticabile dell’altro, dal Vitellozzo di Non ci resta che piangere (1984) a cui “hanno morto il fratello più piccino”, al paziente che dorme, russa, e sogna, e sogna uno che dorme, e che russa… di Caruso Pascoski (di padre polacco) (1988), al padre di famiglia assai ben caratterizzato nel dittico sulla “famiglia Gori” di Alessandro Benvenuti, al padre-filosofo di Tutti giù per terra (1997) di Davide Ferrario. Negli ultimi anni gli è stato affidato in realtà un ruolo da protagonista in un piccolo film indipendente, uno sbellichevole underground, girato in video, che gode di un certo culto. E’ La banda del brasiliano (2009) del collettivo John Snellinberg, girato tra amici con soli 2000 euro a Prato e dintorni. Un film che è anche un omaggio allo stesso Carlo Monni, alla sua coerenza, alla sua passione violenta per la vita.

MASSIMILIANO SCHIAVONI