Aloft

Claudia Llosa torna a Berlino dopo il successo del 2009 con "Aloft", un film tanto ambizioso quanto piuttosto inconcludente, dove dietro il misticismo e le trovate new age rimane ben poco dei personaggi e di una sceneggiatura prevedibile che sbiadisce insieme al bianco del paesaggio.

Atteso ritorno alla Berlinale per la regista peruviana Claudia Llosa, nipote dello scrittore Mario Vargas Llosa, che nel 2009 si era meritata l’Orso d’oro con Il Canto di Paloma, un dramma intimo e compassionevole sulla sessualità negata di una donna, la cui storia era un pretesto per un riflessione sulle miserie e le contraddizioni in Perù alla fine degli anni ’80. In questa 64a edizione presenta in concorso Aloft, un film dall’ambientazione completamente diversa, una coproduzione internazionale tra Francia, Spagna, Canada, con il supporto di Media e Promperù, ma soprattutto con i finanziamenti della regione canadese del Manitoba, dove è stato ambientato il film. Dettagli di produzione che non nascondono le ambizioni di un’opera che alza il tiro rispetto al basso profilo della precedente, e si concede il lusso di un cast altrettanto internazionale con la francese Mélanie Laurent, l’irlandese Cillian Murphy e soprattutto la vincitrice di un Oscar Jennifer Connelly.

La guaritrice
La Connelly interpreta Nana Kunning, madre operaia di due figli, Ivan e Gully, che nel tentativo di trovare una cura per quest’ultimo gravemente malato, viene iniziata all’arte della guarigione da uno sciamano locale che abbraccia una filosofia che prevede rituali di cura attraverso l’arte e la natura, la costruzione di tende di rami, sculture di arbusti che canalizzano come conduttori l’energia che ci circonda. Dopo un tragico incidente capitato a Gully, Nana abbandona la famiglia e il figlio Ivan, isolandosi nell’estremo nord della regione per dedicarsi all’arte della cura. Anni dopo Ivan (Murphy), che è diventato un addestratore di falchi, viene contattato da una giornalista (Laurent) intenzionata cercare Nana per scrivere la sua storia: per Ivan sarà l’occasione di riconciliarsi col proprio passato e di aprire il suo cuore al perdono nei confronti della madre.

L’occhio del falco
Un film che parla soprattutto di perdono secondo le intenzioni della regista, tra le tante e a dire la verità piuttosto confuse linee guida che ci si sforza di trovare all’interno del racconto. Una potrebbe essere invece quella dell’anaffettività della madre, che sentendosi incapace e inadeguata nel suo ruolo, sopratutto impotente di fronte alla malattia di uno dei figli, si allontana dalla sorgente primaria in cui riversare il suo amore e trova rifugio e senso alla propria esistenza nel miraggio della nuova fede e nell’arte della cura. Anaffettività e potere seduttivo delle religioni new age poteva dunque essere uno dei motori della storia, ma anche se fosse Claudia Llosa si dimentica comunque di svilupparlo. Non è chiaro a nessuno il messaggio del film al di là del palese intento di commuovere. “Anche nel luogo più freddo della terra, il perdono può portarti calore”. Sembra piuttosto un pretesto per l’ennesima e pretenziosa storia fatta di infinite dissertazioni su temi esistenziali, ambizione smisurata che allontana da quelle che dovrebbero essere le linee guida basilari quando si racconta una storia: chi sono queste persone? E perché fanno quello che fanno? La sensazione è che tutto questo, l’ambientazione, l’arte, le tende di rami, i voli del falco sulle distese innevate, siano posticce e servano solo a coprire una clamorosa mancanza di idee di fondo.

Fragili strutture
Il rapporto madre figlio viene svelato man mano con tutta una serie di flashback. La storia purtroppo è più fragile di una delle architetture di ramoscelli costruite dalla protagonista e dal santone suo mentore, non sta in piedi e le crepe affiorano da tutte le parti come su una sottile lastra di ghiaccio sotto il peso di un racconto tanto ambizioso quanto inconcludente.
Non è lecito capire quale sia l’obiettivo del film e gli intenti che muovono i suoi personaggi. La sensazione e quella che la regista si sia persa tra suggestioni di allegorie e misticismi, seguendo la fastidiosa tendenza che vuole che per elevare un film occorra infarcirlo di domande, magari poste dall’immancabile voce fuori campo, a sfondo per lo più esistenziale e che non debbano assolutamente contemplare la possibilità di avere una risposta né durante né dopo la fine del film. Di questo pasticcio new age fanno le spese purtroppo anche gli attori, la cui personalità non è sufficiente a compensare lo spaesamento dovuto alla mancanza totale di coerenza e riferimenti, per cui si perdono anche loro insieme alla storia nel bianco del paesaggio in cui tutto si annulla. E dell’annunciato calore nel posto più freddo del mondo a noi non ne arriva neanche un po’.

Alessandro Antinori per Movieplayer.it Leggi