Aberdeen

Ospite consueto del Far East, il regista hongkonghese Pang Ho-Cheung porta quest'anno a Udine un film a metà tra dramma e commedia sul bisogno di sentirsi accettati. Eleganza registica, manierismo di messa in scena e mezzi toni alla lunga un po' stucchevoli.

Pang Ho-cheung è probabilmente nella storia del Far East Film il regista che ha presentato in assoluto il maggior numero di film, a partire dall’esordio del 2001 con You Shoot, I Shoot. Per l’edizione 2014 del festival dedicato al cinema dell’Estremo Oriente, il regista hongkonghese – alla sua settima volta in terra friulana – ha portato Aberdeen, dramedy raffinato ed elegante, sia pur con una forte tendenza al manierismo. Protagonisti della pellicola sono due fratelli da cui si diramano una serie di vicende parallele ed incastrate: Wai-ching ha un rapporto irrisolto con la madre scomparsa diversi anni prima e ha sposato un ecografista che la tradisce con un’infermiera, il fratello Wei-tao ha come compagna un’attrice e modella la cui carriera è in declino e ha una figlia di cui è tutt’altro che orgoglioso (non riesce a capacitarsi di come sua moglie, così bella, abbia potuto partorire una bambina che ritiene brutta), il padre dei due, Dong, officia riti taoisti per i defunti, con l’intento di “accompagnarli” nell’aldilà.

Tutto è nel montaggio parallelo
Mettendo all’opera la sua maestria registica, Pang Ho-cheung passa abilmente dall’uno all’altro dei suoi personaggi, attraverso elaborati e sinuosi movimenti di macchina e costruendo spesso in montaggio parallelo le loro azioni solitarie (ad esempio, il nuotare in piscina, oppure l’osservare lo skyline di Hong Kong da lontano). Aberdeen è, in fin dei conti, un film tutto di atmosfera, dove per l’appunto la sapiente messa in scena permette di entrare in uno scenario in cui alla leggera depressione si unisce il sorriso malinconico. E dove la cattiveria di certi spunti – il padre che non riesce ad accettare sua figlia, la modella che si sente fare proposte oscene da un produttore – finisce per affievolirsi proprio perché quello che interessa a Pang Ho-cheung non è il ritratto psicologico o la crudele commedia umana, quanto la restituzione di un sentimento, di un’anima malinconica e vagamente struggente. In tal senso, pur arricchito da alcune sequenze magistrali (ad esempio, quella in cui Wai-ching sogna la madre oppure l’apparizione di un animale domestico che, sempre in sogno, si “reinventa” come Godzilla e distrugge Hong Kong), il nucleo emotivo di Aberdeen è rappresentato dal montaggio alternato di brevi e ben calibrate sequenze. Tutto scorre, in effetti, senza troppi sconvolgimenti in una meccanica ripetuta che quasi confina con l’horror vacui: del resto, il film inizia e finisce con le parole che ogni giorno ripete l’ecografista: “inspira, trattieni il respiro, espira“; una reiterazione vitale ma priva di precise finalità se non quella di sopravvivere.

Hong Kong o della maniera
E in Aberdeen Pang Ho-cheung conferma appieno la natura manierista del suo cinema. Il film infatti è abitato – sullo sfondo – da un sentimento nostalgico come se Hong Kong e il suo cinema non esistessero più (e, forse, in effetti è così). Da Beyond Our Ken (2004) a Isabella (2006), passando per Trivial Matters (2007), sembra del resto essere questo – il rimpianto del passato – il vero tema del cinema del giovane regista nato nel 1973. Così, anche in Aberdeen non mancano riferimenti precisi a Hong Kong e alla sua storia. Anzi, con questo suo nuovo film, Pang sembra voler affrontare di petto il discorso, visto che il porto di Aberdeen, zona meridionale dell’ex colonia inglese, originariamente si chiamava proprio Hong Kong ed è da qui dunque che deriva il nome dell’isola. È proprio Aberdeen il famoso “porto profumato”, traduzione letterale di Hong Kong (in seguito, gli inglesi per evitare confusioni tra il porto e l’intera città-stato cambiarono nome a questa zona sostituendolo con quello di un loro ufficiale, il conte di Aberdeen).

Il passato è un giocattolo
La storia di Hong Kong che dunque dovrebbe rappresentare la base architettonica del film – e consta di vari riferimenti, tra cui un personaggio che fa da guida turistica, una bomba inesplosa risalente alla Seconda Guerra Mondiale – finisce però presto per sgonfiarsi e non riesce mai a diventare discorso. Al contrario di registi come Wong Kar-wai o Stanley Kwan, Pang non costruisce una elegia dedicata alla sua città, forse perché non vuole e probabilmente perché, come un vero postmoderno, alla nostalgia unisce una discreta dosa di ironia. Non a caso, il lascito maggiore della riflessione sulla sua terra che si può ravvisare in Aberdeen, Pang Ho-cheung lo fa mostrando a tratti la sua città come una città-giocattolo ricostruita in studio e attraversata in sogno ora da camaleonti-godzilla, ora da taxi in miniatura. Questo spunto, seppur geniale e visivamente affascinante, sembra però essere anche il nucleo infantile del cinema di Pang: Hong Kong probabilmente non esiste più e Pang, sin dal suo esordio, non fa altro che ricostruirla nella sua fertile immaginazione come una scenografia colorata e pop, come una atlantide perduta e mai più ritrovata. È forse qui che si gioca il fascino e insieme il limite del cinema del cineasta hongkonghese ed è questo suo tratto che finisce per rendere Aberdeen allo stesso tempo gradevole e un po’ stucchevole, perché in fin dei conti non vi è nessuna storia nuova da raccontare: tutto è già finito e tutto è finto e colorato come una scenografia pronta a cadere al primo soffio di vento.

Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi