Ritual – una storia psicomagica

Liberamente ispirato a un libro di Alejandro Jodorowsky, "Ritual - Una storia psicomagica" è un thriller che vive della dialettica tra le nevrosi della modernità e il potere rigenerante di pratiche arcaiche, risultandone in un'opera di notevole fascino estetico e contenutistico.

Lia, giovane designer di moda, incontra Viktor, affascinante uomo d’affari, e inizia con questi una relazione basata sulla dominazione e sul senso di dipendenza. La donna, psicologicamente fragile, sta tuttora scontando le conseguenze di un trauma vissuto nel passato; quando, da bambina, era ospite a casa di sua zia Agata, nota come guaritrice e praticante di medicina alternativa, in un paesino del Veneto. Quando Lia resta incinta, Viktor la costringe ad abortire clandestinamente; ma questo evento mina definitivamente il già precario equilibrio psicologico della donna. Lia entra in uno stato di profonda depressione e tenta il suicidio; il suo psichiatra le consiglia di tornare a casa della zia, interrompendo la relazione con Viktor e affrontando definitivamente sogni e paure della sua infanzia. Lia segue il consiglio, ma, al suo arrivo, la vecchia casa sembra popolarsi di presenze ed esseri appartenenti al folklore popolare: tra questi, l’Anguana, creatura magica che rapisce i bambini, e i piccoli Salbanei, due enigmatici ragazzini che parlano attraverso filastrocche e nenie popolari. Agata capisce che, per aiutare la ragazza, è necessario un rito psicomagico: una pratica dal forte potere simbolico, che liberi Lia dai suoi fantasmi. Ma Viktor, che nel frattempo ha raggiunto la ragazza nella dimora dell’anziana donna, farà di tutto per fermare quest’ultima, reputandola una pazza ciarlatana…

Il fantasma di Jodorowsky
L’esordio alla regia di un lungometraggio di Luca Immesi e Giulia Brazzale, giovani filmaker già fondatori dell’etichetta indipendente Esperimentocinema, vive delle intuizioni e delle suggestioni dell’universo di Alejandro Jodorowsky. Ritual – Una storia psicomagica, è infatti liberamente tratto dal libro autobiografico La danza della realtà del regista franco-cileno; quest’ultimo è presente anche nel cast, nel ruolo del fantasma del defunto marito di Agata, che anni prima iniziò la donna alla pratica della psicomagia. Quest’ultima è una metodologia di cura psicologica codificata dallo stesso Jodorowsky, che la elaborò traendo spunto dall’opera di una guaritrice messicana (chiaro modello per la figura di Agata); questa trattava i suoi pazienti con atti scientificamente privi di valore, ma dalla valenza simbolica e psicologica tale da spingere l’individuo a un percorso di auto-guarigione. Tutto il film è dunque pervaso dall’approccio dell’eclettico Jodorowsky all’arte, ma anche alla medicina e alla psicologia, elementi difficilmente distinguibili nella visione dell’artista: non a caso, lui stesso ha definito questo Ritualun film terapeutico“, e non a caso il personaggio di Lia (interpretata da un’ottima, diafana Désirée Giorgetti) rappresenta il perfetto esempio di una paziente che, secondo la teoria jodorowskiana, può giovarsi delle pratiche psicomagiche.

Psicomagia in salsa thriller
I due registi, tuttavia, hanno tenuto a specificare che il loro non è, e non vuole essere, un film surrealista, e che le suggestioni di Jodorowski rappresentano per loro solo il principale elemento tematico. Guardando Ritual, in effetti, si riscontra innanzitutto una sostanziale struttura da thriller, pur fortemente (e decisivamente) contaminata da elementi onirici e simbolici. Non è un caso la presenza, nel ruolo di consulente allo script, dello sceneggiatore polanskiano Jeff Gross: il senso di malia e di inquietudine che pervade la storia, il suo costante giocare con i confini di realtà, sogno e creazione dell’inconscio, hanno a che fare con molti dei thriller psicologici del regista de L’inquilino del terzo piano. Non solo Jodorowsky e Polanski, comunque, compongono il complesso mondo di influenze e rimandi di cui quest’opera si nutre; ne è parte anche il cinema di David Lynch, nell’impianto visivo e nelle scelte di fotografia (curatissima e tutta basata su contrasti cromatici e chiaroscuri); nonché, diremmo, persino le suggestioni di alcuni thriller all’italiana del passato (viene in mente un’opera come La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati) che facevano scaturire l’inquietudine dalle assolate realtà della provincia italiana, sede di leggende e di antichi miti e riti. La rielaborazione, comunque, è personale e originale, e si esplica in un problematico viaggio nell’inconscio della protagonista, nonché nelle pieghe di un rapporto di coppia squilibrato e malato.

Suggestioni ataviche
A livello visivo, di Ritual colpisce innanzitutto il contrasto tra gli asettici, opprimenti interni dell’abitazione di Viktor (un Ivan Franek decisamente sopra le righe), tutti virati al bianco, simbolica “trappola” in cui la protagonista rischia di restare imprigionata, e l’imponenza antica, fascinosa nel mistero che da essa emana, della vecchia residenza di Agata e dei luoghi che la circondano. Qui, la protagonista torna a contatto con misteri e paure dell’infanzia, con le sue filastrocche e le sue ritualità, tra enigmatici giochi a nascondino nei prati, bagni in vasche piene di pesci rossi, carte che rivelano segreti pericolosi; ma anche spiriti da cui proteggersi e a cui opporre riti che li neutralizzino. Il ritorno di Lia all’infanzia è sottolineato, anche visivamente, dal cambio di registro nella recitazione della protagonista, in un volto e in un’espressione che, a contatto con la vecchia dimora, assumono di nuovo tratti infantili. Gli stessi rituali della vecchia zia, con cui questa si propone di neutralizzare il senso di colpa che attanaglia la ragazza, sono in fondo legati a doppio filo con i giochi e le pratiche “magiche” codificate nell’infanzia. Persino il personaggio di Viktor, presentato lui stesso come un bambino in preda a fragilità e insicurezze, potrebbe giovarsi di queste pratiche; ma l’uomo sceglie di ignorarne il potere e la valenza, pretendendo di condizionare le scelte della sua compagna e mettendone così a rischio la guarigione.

Una dialettica produttiva
In questa dialettica tra una modernità carica di oppressione, fonte di nevrosi e conflitti, e il potere rigenerante di luoghi, storie e pratiche di un passato mitico, sospeso tra realtà e leggenda, sta la forza del film di Immesi e Brazzale. Una dialettica sottolineata, in modo esplicito, dalla scansione temporale del film e dalle sue due fasi principali, caratterizzate dai due ambienti, così visivamente agli antipodi, in cui la storia si svolge. Gli stessi incubi di Lia cambiano segno e forma nei due segmenti del film; nevrosi illeggibili e immateriali durante la permanenza della protagonista in città, nella casa del compagno; presenze personificate, fantastiche e tuttavia oggettivate (e dunque affrontabili) subito dopo il suo trasferimento nella dimora della zia. Tutti i temi e i motivi, estetici e di contenuto, che lo script inserisce nella storia, nonché il suo stesso fare riferimento alla pratica curativa di Jodorowsky, poggiano in fondo su questa elementare, “fondante” opposizione. Opposizione che i due registi, da par loro, sono riusciti a trasformare in produttiva fonte di fascino, inquietudine e suggestione.

Marco Minniti per Movieplayer.it Leggi