Mal de pierres

I personaggi di Nicole Garcia soffrono una forma di dissociazione dalla realtà. Vivono dentro un’ossessione che fa smarrire loro, pericolosamente, il contatto con le cose vere. In fondo non c’è molta differenza tra il Jean Marc che mentiva alla famiglia ne L’avversario e la Gabrielle che mente a se stessa di Mal de pierres, ultimo lavoro della regista francese tratto dal romanzo della scrittrice sarda Milena Agus.

Gabrielle (Marion Cotillard) fa parte della nutrita famiglia delle ragazze interrotte, potrebbe essere una delle Girls Interrupted di Mangold o la Golino di Respiro, vive cioè a corrente alternata, un po’ dentro e un po’ fuori, cioè troppo dentro per non essere fuori. La giovane donna è strana, non sa gestire le sue passioni ma le lascia dilagare e poi deflagrare in atti inconsulti. Il suo problema è che ama senza contegno. Sarebbe bizzarra oggi, figuriamoci nella sonnacchiosa campagna provenzale dei ’50. Prima circuisce il professore di lettere, cui scrive lettere erotiche, poi un colonnello dell’esercito (Louis Garrel) incontrato in una clinica dove Gabrielle deve curarsi i calcoli (il mal di pietre del titolo). L’affezione in lei si manifesta come infezione, patologia, e si risolve in affettazione, bugia.
Gabrielle sembra potersi innamorare di tutti tranne che di suo marito, il paziente e devoto Jose (Alex Brendemuhl), che invece ama davvero sua moglie.

Gabrielle è un personaggio da romanzo da appendice in un film che lo è solo apparentemente. La storia di questa donna convinta di poter vivere unicamente un destino, quello di chi cerca l’amour fou, una tipica storia da letteratura rosa, confligge, infine si affligge nella parabola ferocemente dissacratoria del film, che sbatte la verità in faccia a Gabrielle in un modo beffardo, brutale, persino canzonatorio (il ritrovamento della foto nel finale).
Il momento dell’agnizione nei film della Garcia è sempre uno shock: il personaggio non può più fuggire (come fa Gabrielle ogni qual volta la situazione non collima con il suo schema mentale) ma deve farci i conti: come un malato deve morire per far nascere il sano, a meno che non decida di uccidere L’avversario per poter continuare a inseguire i propri fantasmi (del desiderio).

Meno banale di quanto non sembri dunque, questo finto melo’ aderisce a tutti gli stilemi di genere ma ne ribalta i presupposti: la magniloquente musica, i colori fiammanti di un paesaggio impressionista, la recitazione artefatta, l’esplosione di primi piani, allestiscono una scena posticcia, prefigurando le menzogne coltivate da una protagonista antipatica, così convinta di meritare una vita più autentica – e di potersi permettere perciò di essere franca e sgradevole col marito –  da non accorgersi di vivere una bugia.

Quello di Marion Cotillard è un personaggio difficile da amare, anche se Louis Garrel riesce a fare di peggio anche stavolta. In fondo a conquistare e illuminare la scena è Jose, il marito, l’uomo dei silenzi, della tenerezza, l’uomo paziente capace di vincere il male oscuro della moglie.

Si tratta in ogni caso di caratterizzazioni iconiche, a due dimensioni, che assolvono a una funzione precisa della drammaturgia. Il film fa della sua schematicità un progetto, ma alla lunga diventa un difetto. Forse la sua dimensione è la sala, non un festival. Ma in questa Cannes 2016, che trabocca di titoli sulla famiglia, ci sta benissimo.

Gianluca Arnone per cinematografo.it