Il ragno rosso

Cracovia, 1967. Karol, studente di medicina e promettente tuffatore, crede di riconoscere in un silenzioso veterinario lo spietato serial-killer di bambini che terrorizza da qualche tempo la vita della città polacca e che la stampa e la polizia identificano come il Ragno Rosso. Sepolto vivo in un gelido inverno che si estende alle sue relazioni e alla vita familiare, Karol inizia così a provare un insano fascino per il modus operandi dell’assassino e un’attrazione irresistibile verso il delitto e la sua inspiegabile morale.

Marcin Koszalka, regista polacco, costruisce un sinistro ritratto del cupio dissolvi latente nell’animo umano, accompagnando lo spettatore in una tetra ricostruzione di quella che doveva essere la Polonia degli anni sessanta, gravitante nell’orbita dittatoriale dell’Unione Sovietica ma già, seppur sottilmente, smossa dagli aneliti libertari filtrati dall’Occidente – essenziali le citazioni di “Mick Jagger e del rock’n’roll”. Politica, dunque, la chiave di lettura di un’opera di genere che travalica il genere come Il Ragno Rosso. Per quanto diversissimo in materia di stile ed esito artistico, è impossibile non pensare allo splendido Memories of Murder del sudcoreano Bong Joon-ho, anch’esso basato sulla caccia a un assassino seriale e anch’esso, analogamente, cronaca mascherata di un cambiamento storico nazionale.

Tornando al nostro film, notevole è, infine, il comparto tecnico: la fotografia notturna, plumbea e illividita, e il lavoro accorto di regia che predilige l’uso di grandangoli, di inquadrature dal basso e di campi lunghi per esprimere al meglio il deserto esistenziale di due uomini alla deriva assieme alla propria nazione.

Gianfrancesco Iacono per cinematografo.it