Il grande Gatsby

Il film di apertura del festival di Cannes, diretto da Baz Luhrmann è un trionfo carnascialesco, l'apice di un camp saturo e informe, che è la sua fortuna e la sua dannazione. Con DiCaprio e Carey Mulligan.

Rivivere le parole impresse sulla carta attraverso le immagini. Questo il compito del cinema di fronte a un adattamento letterario. Può essere buono o meno il testo, necessario resta però il compito della trasformazione. Eppure il discorso diventa molto più complesso a volte perché la funzione di un cineasta non è quella di compiere una parafrasi dalla parola all’immagine, come determinati puristi o semplici ottusi, prediligono. In realtà quello non sarebbe cinema, ma semplicemente un racconto meccanico di una storia, o per meglio dire di una trama. È quanto accadde nella precedente versione cinematografica del 1974 de Il grande Gatsby dove il regista inglese Jack Clayton (che il caso volle produsse la prima versione del Moulin Rouge di John Huston del 1952) predilige una forte ‘responsabilità’ delle prove recitative per dirigersi verso un prodotto finito che è un ricalco sempliciotto del lavoro di Fitzgerald. Il risultato fu grandemente criticato perché l’adattamento di Clayton del più grande romanzo dell’età del jazz restava piatto in una forma priva di intuizioni personali.

A distanza di quasi quarant’anni arriva un’operazione diversissima per mano del visionario e post-modernista per eccellenza Baz Luhrmann, il regista australiano che aveva già dato modo di compiere questo tipo di revisione nei confronti della letteratura: lo aveva fatto persino con il Romeo e Giulietta di Shakespeare, figurarsi se poteva spaventarsi nei confronti di Fitzgerald! Il grande Gatsby di Luhrmann infatti è una costosa ed eccessiva costruzione caricaturale degli anni Venti americani – come, in fondo, è giusto considerato il periodo e la ricchezza opulenta e volgare che precedette la crisi economica – e sfrutta quegli elementi per rimaneggiare in chiave pop le immagini filmiche, accompagnate da ritmo musicale contemporaneo hip-hop e pop con canzoni di Beyoncé, Lana del Ray e Bryan Ferry, Gotye e Florence + The Machine, un uso manierato di un 3D che sfonda in quel mondo lontano per dare al film l’ennesimo rimestaggio fra vecchio e nuovo (d’altronde la medesima operazione di Martin Scorsese con Hugo Cabret, in quel caso con il cinema muto). Lo stesso The Artist del francese Hazanavicius o l’ancora più recente Blancanieves dello spagnolo Pablo Berger sono operazioni che nella loro opposizione linguistica al film di Luhrmann – ovvero la fedeltà pedissequa all’estetica della forma del cinema muto ormai caduto in disuso da 85 anni – hanno a conti fatti una medesima visione postmoderna.

D’altronde, sono opere immortali e strapopolari come Il grande Gatsby – storie che conoscono tutti, anche chi non ha mai letto il libro – ad essere il veicolo adatto per operazioni il meno possibile fedeli al testo di derivazione. Ed è proprio in questi casi, al di là dei difetti, che il cinema non si assoggetta a semplice servitore di una forma culturale molto più antica come quella letteraria, ma diventa espressione personale, visuale, estetica.
Sotto questo punto di vista l’operazione di Luhrmann è come suo solito non perfetta ma comunque affascinante perché concede indipendenza alla sua opera, la rende personale. Seppure la sua architettura visuale resta finalizzata a tutti gli scopi del romanzo (alla fine il messaggio di fondo lo coglie e pure a lettere cubitali), è vero però che il regista non riesce a tenere fede alla struttura della sua opera che, per sorreggere la sua ostentata ricerca della superficialità del mondo dei ricchi in chiave pop – in un contesto che badava al denaro e non all’essenza dei sentimenti -, finisce per restare poi paradossalmente proprio in superficie nei riguardi della complessità dei personaggi di origine, aleatori come zucchero filato. Luhrmann si confonde qui fra la vacuità caratteriale del personaggio di Daisy, fra la sua debolezza umana e una debolezza narrativa in chiave psicologica, fra la misteriosità di Jay Gatsby, che corrompe se stesso in un mondo di finzioni per il sentimento più puro di tutti, e la poca fluidità del ritratto reso da Leonardo DiCaprio, ancora una volta – come in The Aviator – volto improbabile per un uomo vissuto e dal passato burrascoso, che ancora non sembra mettere rughe sul volto del Jack Dawson di Titanic. Ma in realtà c’è da considerare che Gatsby e Daisy sono il frutto di due sentimenti contrapposti, che nel romanzo stesso restano figure più mistiche, aleatorie e non concrete, rappresentanti la lotta fra un mondo che si corrompe per mantenere in funzione un sentimento vivo e un altro che dimostra il nichilismo dello stesso. Laddove la riduzione dei dialoghi diventa la quintessenza di una visione kitsch, subodorata visivamente in alcuni fotogrammi dalla sovrimpressione di lettere e parole proferite dall’occhio dello scrittore in erba e squattrinato Nick Carraway (un Tobey Maguire dalla faccia troppo divertita per essere davvero dilaniato dalla crescita interiore di un io che ha scoperto le contraddizioni di uno scorcio sociale luccicante), l’osservatore, l’alter ego dell’autore come lo è Nathan Zuckerman per Philip Roth. Per questi aspetti Luhrmann dimostra di limitarsi alla mera stilizzazione visiva, che funziona, ma quando accede al corpo dei personaggi, alla sceneggiatura e a certe sfumature, si perde inevitabilmente. E forse consapevolmente, perché non è film di sfumature questo Gatsby, quanto piuttosto amplificazione del carnascialesco, del kitsch.
Lo dimostra del resto anche la recitazione di un gruppo di attori che esaspera la sfera del grottesco in quella che si rivela una recitazione teatrale dove i sentimenti quanto più sono intimi e privati tanto più sono espressi con gusto granguignolesco. È un fenomeno di camp saturo e informe che è la sua fortuna e la sua dannazione perché nella sua vastità di intenti si incarta su se stesso finendo per essere un qualcosa di necessariamente incompiuto.

ERMINIO FISCHETTI