The Bay

Il regista di Rain Man Barry Levinson ritorna con un horror ecologista girato come un finto documentario. Apprezzabile l'intento etico, ma l'inconsistenza del racconto impedisce al film di sensibilizzare e spaventare.

E’ un percorso artistico piuttosto interessante quello del settantenne Barry Levinson: regista, produttore, sceneggiatore e occasionalmente attore; nome di spicco del cinema “medio” anni ’90; vincitore di un Oscar con Rain Man – L’uomo della pioggia, ha diretto le più importanti star, da Dustin Hoffman a Robin Williams, da Robert De Niro a Michael Douglas; si è misurato con i più disparati generi, drammatico, thriller, commedia, fantascienza, per passare, negli ultimi anni, ai margini dell’industria con produzioni documentaristiche e televisive di minor richiamo. Non sorprende particolarmente, così, questo dimesso ritorno dietro la macchina da presa a quattro anni di distanza da Disastro a Hollywood, suo ultimo lavoro per il grande schermo, con un piccolo film low-budget realizzato – o meglio, schiacciato – sotto l’egida degli autori della fortunata serie Paranormal Activity all’insegna di quello che ormai si può considerare come una sorta di marchio di fabbrica dei suddetti. Horror ecologista, girato con lo stile del found-footage sulla scia dei vari The Blair Witch Project e Cloverfield, The Bay mescola i canoni del mockumentary a quelli del creature feature per tentare blandamente di coniugare denuncia e intrattenimento ma senza mai centrare appieno l’uno o l’altro obiettivo.

La vicenda si svolge nel 2009 a Claridge, cittadina costiera del Maryland dove politiche sconsiderate – la sottovalutata perdita di scorie dalla centrale nucleare e il riversamento nelle acque della baia di tonnellate di escrementi avicoli – hanno alterato l’ecosistema al punto da generare una nuova specie di voracissimi parassiti responsabile della morìa di migliaia di pesci e uccelli. E mentre le istituzioni e i media minimizzano, il pericolo si estende rapidamente fino a minacciare gli stessi abitanti della comunità. Partendo da questa premessa, The Bay mette in scena un finto reportage, realizzato da una giovane reporter del luogo, che, con l’intento di render nota la vera natura dei fatti, mette insieme diverse testimonianze filmate (da cellulari, webcam, telecamere di sorveglianza) di quanto accaduto durante la giornata del quattro luglio, quando, cioè, la catastrofe raggiunge il suo apice sconvolgendo con le atroci morti di numerose persone, gli ameni festeggiamenti dell’Indipendenza. Apprezzabile nell’efficace resa realistica delle riprese finto-amatoriali, corroborata da un impiego funzionalmente invisibile degli effetti speciali, quanto nella scelta di spostare la dimensione globale propria del filone disaster su una perturbante ambientazione provinciale, il tocco di Levinson si mette immediatamente da parte, all’ombra di Oren Peli & soci, il cui gioco sui due piani di realtà e finzione appare ormai in tutto il suo logorio. Il problema non è, infatti, tanto nelle lacune di una sceneggiatura spesso fallace nei nessi causali, né nello scarso appeal di un cast composto da attori poco noti, non sempre all’altezza delle esigenze naturalistiche dei ruoli, quanto piuttosto nella vacuità del materiale di base, sufficiente a malapena per un cortometraggio e al tempo stesso sprecato nelle sue potenzialità. Completamente priva di una progressione drammatica, la storia si esprime completamente fin dalle prime sequenze, tanto in quel senso di terrore, panico e psicosi che avrebbe richiesto quantomeno un crescendo per condensarsi nella giusta atmosfera, tanto nel messaggio edificante, spiattellato fin troppo esplicitamente. Allo stesso modo, la riproposizione da diversi punti di vista delle stesse situazioni, accompagnate dall’incessante blaterare dell’antipatica protagonista (peraltro, suo malgrado, vittima dell’imbarazzante doppiaggio italiano) non fa che accrescere quell’effetto di ridondanza e didascalismo che certo non giova alla fruibilità della pellicola. E se la riflessione sui nuovi media, sui linguaggi e sulla riproducibilità dell’immagine risulta fuori tempo massimo, dispiace soltanto per la meritoria motivazione di fondo, che avrebbe richiesto ben altro veicolo che una pellicola incapace di spaventare quanto di sensibilizzare.

CATERINA GANGEMI