Selezionato per Orizzonti a Venezia 68, Whores’ Glory è uno straordinario e crudele documento sulla prostituzione ambientato tra Thailandia, Bangladesh e Messico. L’autore, l’austriaco Michael Glawogger, è attivo da anni nell’ambito del cinema documentario (già presente a Venezia nel 2005 con Workingman’s Death) e, per l’occasione, riesce a spingersi con occhio partecipe e mai paternalistico nei confronti di un tema senz’altro a rischio di cadute di tono. Lo stesso passaggio da un luccicante bordello di lusso thailandese al poverissimo ghetto della prostituzione in Bangladesh, fino alla famigerata e squallida “zona” messicana, è costruito su un crescendo di disperazione che nel primo episodio dà l’impressione della vendita, in fin dei conti superficiale e quasi spensierata, del corpo delle ragazze di Bangkok, per poi passare agli affondi tragici del secondo e del terzo frammento. In Bangladesh infatti emerge la condizione di povertà di queste donne che presagiscono senza difficoltà e con rassegnazione un futuro identico al loro per le figlie, mentre in Messico addirittura la depravazione, per le prostitute raggiunte dalla macchina da presa di Glawogger, si è spinta al nichilismo consapevole, alla constatazione che non vi è più futuro, che quel mondo – e forse tutto il mondo – è fatto solamente di macerie e automobili che si aggirano in cerca di corpi.
Glawogger però non intende denunciare apertamente il fenomeno della prostituzione, preferisce piuttosto provocare il rifiuto nello spettatore procedendo passo dopo passo, intervista dopo intervista, visione dopo visione. E in particolare nella tenuta del film ha un ruolo cruciale la regia, sempre elegante, curata e mai approssimativa. Se questo a volte può dare l’impressione di una eccessiva ricostruzione fictionale di alcuni eventi (in particolare si fatica a comprendere per quale motivo uno solo dei clienti intervistati si copra il volto), dall’altro permette a Glawogger di esprimersi per vie sottili, cioè puramente stilistiche, invece di abbandonarsi alla facile e gridata indignazione. Ad esempio, resta nella memoria lo straordinario gioco di trasparenze e riflessi dell’episodio thailandese, in cui i corpi delle ragazze sembrano degli ectoplasmi ambiti dai ben più carnali e volgari corpi degli uomini che le osservano come oggetti mercificati. E poi, come insegna anche un nostro indiscusso maestro del cinema documentario, Vittorio De Seta, il cinema è sempre questione di stile e di scrittura, anche quando si tratta di fare un documentario o quando si sceglie di svolgere un’inchiesta.