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18/11/11 - Emmerich si diletta sulla paternità delle opere di Shakespeare di cui parla ai nostri microfoni. Ma non bastano Redgrave e Ifans per fare un bel film.

Ascolta l’intervista di RADIOCINEMA al regista (a cura di Erminio Fischetti):

  • Roland Emmerich
  • Sorprende vedere Roland Emmerich dietro la macchina da presa di una pellicola in costume, non che non lo abbia fatto con Il patriota o con 10000 A.C., ma tutti sono abituati a ricordarselo come quel regista un pò cialtrone che realizza blockbuster da centinaia di migliaia di dollari incassandone dieci volte di più raccontando roboanti fini del mondo in pellicole come Independence Day e 2012. Stavolta, invece, il regista tedesco va a scomodare la summa della cultura inglese, William Shakespeare e il periodo elisabettiano, e si diletta a dare una risposta al mistero che più attanaglia studiosi ed esperti: le opere del bardo sulle quali si basano le fondamenta della cultura sono davvero sue? In molti hanno avuto questo dubbio: da Freud a Walt Whitman, da Orson Welles a Charlie Chaplin, da Derek Jacobi al grande Sir John Gielgud. Frammenti, dettagli, mancanza di collegamenti fra i suoi scritti e la sua vita fanno credere che sia una teoria fondata. Ed Emmerich, su sceneggiatura di John Orloff, fa un’ipotesi sull’argomento mettendo in gioco intrighi di corte, figli illegittimi, ipocrisie e tradimenti tipici del regno elisabettiano, che vedono al centro di tutto Edward De Vere, il conte di Oxford e la regina Elisabetta I in persona. Interessante operazione che mescola storia e leggenda attraverso una mimetica narrativa altrettanto confusa, azione e commedia, dramma e film epico.

    Emmerich inserisce pathos nell’incalzare della vicenda, ma finisce come al solito per cadere in un prodotto finito estenuante, dalla eccessiva durata, dalle cafonate ostentate, riuscendo a fare anche della vita di Shakespeare un blockbuster al solito il suo pregio e la sua condanna. Perché anche stavolta, un suo film è privo di stile e a darglielo non bastano la tematica né la ricostruzione – tra l’altro alquanto sciatta – del XVI secolo. Il film però carbura e si lascia guardare, a tratti anche con piacere, ma a dispetto della sua regia, nonostante la banalità della sua struttura narrativa. E neanche il cast giovane sembra sforzarsi troppo, tra facce sbagliate e troppo adolescenziali uscite dai vari Harry Potter e Twilight (vedasi Xavier Samuel e Jamie Campbell Bower). A quanto pare nemmeno osservare al lavoro una Vanessa Redgrave che, seppure non ci mette troppo entusiasmo (tante hanno fatto Elizabeth Tudor e quasi tutte in modo più memorabile), brilla comunque di luce propria e un Rhys Ifans da troppo tempo sottovalutato, non è bastato ai loro colleghi. Né a dare uno slancio più compatto al film, che si perde, in ultima analisi, per non aver subito troppe sforbiciate.

    ERMINIO FISCHETTI

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