Cut

02/09/11 - Selezionato in Orizzonti, il film di Naderi aderisce perfettamente alla cultura giapponese, lanciando un accorato urlo cinefilo per la purezza del cinema.

Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI

Dopo una felice e duratura stagione negli Stati Uniti, il cineasta iraniano Amir Naderi conferma con Cut, d’ambientazione giapponese, una non indifferente predisposizione alla comprensione delle realtà culturali di altri paesi. In concorso alla Mostra in Orizzonti, il nuovo film di Naderi infatti riesce a cogliere una caratteristica centrale dello spirito nipponico, quello dell’etica del sacrificio e – sostanzialmente – dell’harakiri. Il protagonista assoluto di Cut è Shuji (incarnato con partecipazione da Hidetoshi Nishijima), un giovane cinefilo e regista, completamente assorbito, fino all’autodafé, dalla passione cinematografica. Il suo intenso rapporto con il cinema ha costretto il fratello a indebitarsi per poter permettere a Shuji di realizzare i suoi film. Quando poi però il fratello viene ucciso, l’ingenuo ed egoista ragazzo scopre la tragicità della vita e se ne accolla fino in fondo il peso arrivando a ripianare il debito a scapito della sua stessa integrità fisica: istituirà infatti un gioco al massacro lasciandosi picchiare in cambio di soldi. Così Shuji riuscirà a raggranellare il denaro sufficiente per acquietare i suoi creditori, pur avendo sempre in mente una sola cosa: la moralità e la bellezza del cinema da difendere contro la sua aberrante mercificazione.

Cut è perciò un iperbolico, paradossale e anche tragico richiamo alla purezza artistica della Settima Arte prendendo ad esempio il percorso dei tre grandi cineasti giapponesi, Ozu, Mizoguchi e Kurosawa (le cui tombe vengono visitate dal protagonista, così come faceva Wenders per Ozu in Tokyo-ga, 1985), ma anche quello di tutti gli altri maestri del cinema mondiale da Fellini a Welles, da Bergman a Godard, ecc. Quel che funziona in una storia sin troppo evidentemente intrisa di ingenuità cinefila è proprio il crescendo del percorso tragico del protagonista che, da moralizzatore saputello, si trasforma in martire del cinema senza mai perdere per un momento la convinzione e la passione. Ed è qui per l’appunto che harakiri e cinefilia totale trovano la loro equivalenza per un film che è sia una riflessione sulla cultura giapponese sia un urlo disperato alla Munch per un’etica cinematografica. Naderi poi si spinge talmente a fondo del suo discorso da inframezzare alle immagini dell’ultimo catartico pestaggio di Shuji la sua personale lista dei 100 migliori film della storia che vengono citati uno ad uno sullo schermo. Ne consegue che Cut arriva quasi ad annullare la sua dimensione filmica e, come il suo protagonista, rinuncia a se stesso, alla sua estetica e alla personalità del suo autore per darsi completamente al Cinema. Mai forse prima d’ora l’autoriflessività del mezzo, pur annoverando capolavori assoluti, da 8 e mezzo a Lo stato delle cose a Effetto notte, era arrivata a una tale estremizzazione cinefila.