The Ward

25/03/11 - Dopo nove anni di assenza, il regista americano cult torna sul grande schermo: c’è un pizzico di delusione, ma anche tanto Carpenter’s touch.

È lecito segnalare, a proposito di The Ward – Il reparto, una certa delusione affettiva, figlia soprattutto di una lunga e bramosa attesa, durata ben nove anni (tanti ne sono passati da Ghost from Mars, ultima opera di Carpenter per il grande schermo), ma anche di una percettibile latenza di personalità autoriale. A fare difetto alla nuova fatica del maestro statunitense sono soprattutto la pungente ironia che caratterizza i suoi film migliori, la profonda attualità dei discorsi che sottendono le sue opere anche quelle più legate al “genere” e quella “reverenza irriverente” verso il cinema classico (soprattutto il western di Howard Hawks), insomma tutti quegli elementi che arricchiscono i suoi film con spunti allogeni ipoteticamente inarrestabili, che squadernano il racconto aprendolo a nuove suggestioni, riuscendo sempre a galvanizzare lo spettatore, anche il più pigro. Dal punto di vista della mera struttura narrativa, possiamo a dire che The Ward è come Il signore del male senza le allusioni alla fisica quantistica, deprivato del suo substrato filosofico e scientifico, fino a restare semplice canovaccio orrorifico sul male e su come combatterlo. A portarci a queste conclusioni, va detto, è soprattutto il plot nudo e crudo del film, che ci ripropone la storia, già più volte sfruttata, di un fantasma vendicativo che abita i corridoi di un manicomio criminale femminile.

Nulla da eccepire, invece, sul versante stilistico, dove segnaliamo la vigile e scalciante presenza del vecchio maestro, che rispolvera una messinscena mai banale e splendidamente “old style”. La tensione tiene, si salta all’unisono sulle poltrone, la macchina da presa è lì al posto giusto e il male si manifesta sempre nell’angolo più insospettabile dello schermo. Nessun horror contemporaneo può vantare un utilizzo così sapiente e millimetrico della camera, di solito per spaventare lo spettatore si ricorre a mezzucci più terra terra, come alzare il volume della musica, scuotere la macchina da presa o accelerare il ritmo del montaggio. La figura stilistica prescelta da Carpenter per accompagnare il nostro ingresso nel reparto, come ben ci esemplifica l’incipit del film, è il carrello, chiamato in causa, in seguito, non solo come veicolo privilegiato di attraversamento degli spogli corridoi del manicomio, ma anche come strumento di indagine lanciato verso i personaggi, per meglio coglierne i moti ora di ribellione ora di terrore, o scavarne il passato, denso di foschi ricordi. A marcare uno scarto dunque rispetto al resto della filmografia di Carpenter, non è una sua debacle registica quanto, in tutta evidenza, l’assenza del suo nome tra quelli degli sceneggiatori (il film è vergato dalla coppia di carneadi, almeno per ora, Michael e Shawn Rasmussen ). Un altro “credit” resta poi orfano del suo nome ed è quello relativo alla colonna sonora, qui opera di Mark Kilian. Le musiche di The Ward emulano le sonorità dei Goblin di argentea memoria (il riferimento è a Dario, naturalmente non all’omonima lega metallica), come testimoniano i coretti femminili eterei e infantili e sono pertanto assai distanti dai suoni synth scarni e inquietanti che caratterizzano le composizioni di Carpenter. Altra novità da segnalare è l’impianto sostanzialmente realistico del film che, anziché aprirsi a fantasiosi elementi soprannaturali, si mantiene ben saldo su un naturalismo visivo che evita eccessi di computer grafica (il “mostro” è antropomorfo più che onirico), per riportare alla luce quell’umanesimo che è caratteristica costante della poetica carpenteriana. Non è però il solito sodalizio virile (pensiamo a La Cosa, a Distretto 13) a tenere banco qui, bensì un’alleanza complessa e multiforme tra caratteri femminili ben delineati, come esemplifica la bella sequenza del ballo nella sala della ricreazione, dove ciascuna attrice si esprime fisicamente nello spazio, senza tracimare di un centimetro dal proprio personaggio. Più che ad una storia di fantasmi o di sadiche creature ritornate dall’aldilà (stile The Grudge, per intenderci) The Ward fa pensare a classici come La fossa dei serpenti di Anatole Litvak (The Snake Pit, 1948) o al capolavoro di Samuel Fuller Il corridoio della paura (The Shock Corridor, 1963), quest’ultimo, non a caso, figlio di quegli anni ’60 in cui anche The Ward è ambientato, un periodo di forti tensioni sociali e politiche per gli States, una sorta di adolescenza inquieta che, proprio come quella delle nostre protagoniste, è pronta ad esplodere.

The Ward non marca dunque propriamente un’involuzione della carriera di Carpenter, lo stile visivo non mente, è proprio lui a dirigere i giochi, ma per quel che riguarda il dipanarsi della storia, twist narrativo compreso, lo spettatore soffre per una certa sospensione della personalità autoriale. E forse è proprio in questo che risiede la grandezza del film, non tanto nel suo puro e semplice presentarsi come un prodotto riuscito (un solido horror psicologico ricco di azione e suspense), bensì nel suo saperci riproporre una vecchia storia che riesce a terrorizzarci come se fosse nuova. Il “classico”, d’altronde, non è più oggetto di riletture né citazioni come avveniva nella recente era postmoderna (di cui Carpenter è stato esponente), bensì si è trasformato in un involucro solido, un guscio da riempire per confermarne l’imperitura attualità, come nella migliore tradizione hollywoodiana.

DARIA POMPONIO

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