Falso Specchio

17/11/09 - Per una volta parliamo anche di cinema di messa in scena, di finzione pura (anche se la finzione...

Falso specchio – Finalmente documentario

(Rubrica a cura di Silvio Grasselli)

falso-specchio-interno.jpg17/11/09 – Per una volta parliamo anche di cinema di messa in scena, di finzione pura (anche se la finzione al cinema di rado si può legittimamente dire pura). Il motivo è che nel giro di un paio di settimane ci siamo imbattuti in due film, lontanissimi l’uno dall’altro, apparentemente quanto inaspettatamente apparentati da una comune caratteristica estetica. I due film sono l’illuminante “Nel paese delle creature selvagge” di Spike Jonze e l’elegantissimo “Nemico pubblico” di Michael Mann. Qual è questa caratteristica in comune dunque? Il fatto che tutti e due, in modi inevitabilmente differenti, possano essere scelti come esempi brillanti di quello che chiamerei “cinema atmosferico”.

Nel primo, dopo la notte dell’incontro con le creature, il piccolo Max apre gli occhi in una foresta illuminata dalla luce radente del sole basso all’orizzonte. Per lunghi secondi il film non “dice” altro che questo: la luce illumina le cose secondo una specifica inclinazione, decidendo della gradazione dei colori, e ancor più dei contrasti tra le parti illuminate e quelle che invece restano in ombra. E forse dice anche qualcosa di più: lavorando sulla dilatazione temporale che i bambini conoscono molto bene, trasforma un dettaglio, un colpo d’occhio in una scena autonoma. Nel secondo, John Dillinger sta per evadere dal carcere dov’è detenuto. Nel cortile della prigione avanzano, inquadrati da lontano, i suoi compari, pronti all’azione. Il cemento dell’edificio occupa poco meno della metà dell’inquadratura; nel resto sta il cielo rotto dalle bianche nubi che si muovono sospinte dal vento. Intorno è il silenzio. Pochi minuti più tardi lo stesso silenzio viene dilaniato dagli spari. La macchina digitale diretta da Mann torna più volte a lavorare in modo simile. Dopo la prima rapina del film, gli ostaggi vengono legati e abbandonati in mezzo a una foresta (altra curiosa coincidenza). Sulla fiancata dell’auto che porta lontano John insieme ai suoi uomini, si riflette il mondo immobile che sfila rapido: la strada, gli alberi, ancora il cielo e le nuvole. Il sole è sempre quello, radente e pallido, invernale e/o pomeridiano.

Che si tratti di cinema in pellicola o in digitale, che il discorso si centri sulla potenza vitalistica e sovversiva d’un antieroe o della scoperta della propria presenza nel mondo da parte della vergine percezione d’un bambino, questo cinema dimostra la necessità e la ricerca non solo e non tanto d’un effetto quanto piuttosto del sentimento stesso della realtà. I due protagonisti, ciascuno secondo un suo percorso diverso, cercano di affondare il più possibile la propria esperienza nelle cose, nel mondo: Max attraverso la relazione con gli altri, costruita e ottenuta con il gioco, John imponendosi con la dimostrazione dell’onnipotenza, dell’ubiquità, dell’invulnerabilità. Il punto è che in questi due film (che della realtà potevano benissimo infischiarsene, considerando che uno è una favola fantasy, e l’altro in fondo è un film di genere) la realtà non la si “ricrea” attraverso l’uso del cliché realistico, della verosimiglianza narrativa, ma seguendo la via della scelta estetica, dell’apertura del dispositivo a un lavoro più profondo e più complesso. Senza di esso il film di Jonze sarebbe stato forse un mesto teatrino di marionette, quello di Mann l’ennesima epopea nera per cultori del genere. A martedì prossimo.