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14/05/11 - Questioni filologiche scatenano la rivalità tra padre e figlio. In concorso al festival un'altra pellicola sui rapporti familiari, diretta da Joseph Cedar.

Dalla nostra inviata Lia Colucci

Ascolta la conferenza stampa al Festival di Cannes del film:

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  • Questioni filologiche legate al Talmud scatenano la rivalità tra padre e figlio. Sembra che il conflitto generazionale sia un dato costante di questa 64esima edizione del Festival di Cannes, dopo We Need to Talk about Kevin di Lynne Ramsay, a dire la sua, sempre in concorso, è Joseph Cedar con Hearat Shulayim – Footnote. Il giovane ma già blasonato regista, due volte nominato per l’Oscar come Migliore film straniero nel 2001 Time of Favor e nel 2004 Campfire, nonché vincitore dell’Orso d’Argento nel 2007 con Beaufort, torna a parlare insistentemente di vicende legate all’ebraismo. Quasi un ossessione la sua non c’è film che riporti una realtà diversa da quella vissuta in Israele, che sia la guerra in Libano (Beaufort) o il conflitto nelle West Bank (Time of Favor). Questa volta siamo a Gerusalemme e il cineasta decide di tirare fuori le sue competenze filosofiche per mostrarci la famiglia Shkolnik, una vera genia di ricercatori il cui padre integralista negli studi e piuttosto sfortunato, viene superato dal figlio che diviene ben presto membro onorario di qualsiasi società scientifica prestigiosa esistente nel Paese. Eliezer (il padre interpretato in maniera piuttosto piatta da Shlomo Bar Aba) si sente esiliato nella sua condizione di perdente, mentre Uriel (il figlio Lior Ashkenazi anche lui piuttosto modesto) continua ad accumulare titoli e meriti. Ma viene il giorno del riscatto: ad Eliezer verrà conferito un Premio speciale una specie di Nobel israeliano.

    Ovviamente si tratta di uno scambio di nomi, ma quasi tutta la pellicola si basa su questo insignificante equivoco. Il sacrificio del figlio, una specie di Isacco moderno, porterà alla ribalta il padre, però conscio della sua sconfitta. La regia segue con attenzione i pensieri, i movimenti ed i ricordi dei due protagonisti, ma Cedar si lascia prendere la mano dalla fantasia e spazia dai fumetti alla visionarietà delle immagini, condendo il tutto con un tiepido umorismo jewish. Glissando sull’improbabile messa in scena, la sceneggiatura resta in bilico tra argomenti seri e siparietti ironici che di certo finiscono per non approfondire la relazione parentale, senza alleggerirla in maniera elegante e sinceramente vivace (vedi alla voce Woody Allen che di conflitti generazionali ambientati in zona yiddish è maestro). Una pellicola deludente e pretenziosa, affatto divertente, lontana da ogni genere che ci fa rimpiangere il cinema impegnato dell’artista: ossia quando parlava della guerra in Libano con intensità e sconforto degno del “Deserto dei Tartari” e che ora sembra regredire, con lui anche gli attori che non trasmettono nessuna emozione tranne una: la noia.