Hanna

29/07/11 - Un action-thriller denso di trovate visive e narrative: un ipertrofismo che alla lunga finisce per danneggiare il film, interpretato da Saoirse Ronan.

Sospeso tra romanzo di formazione e action thriller itinerante, Hanna di Joe Wright sfugge a ogni definizione e al tempo stesso le ingloba tutte. Esempio di un cinema postmoderno d’azione infarcito di citazioni e rimandi allogeni (dal cinema alla letteratura, alla musica), il film di Wright spreme al massimo il suo plot avventuroso per inanellare sequenze action di pregiata fattura, favorite da una sceneggiatura talmente libera da sembrare delirante. Al centro delle vicende troviamo Hanna (Saoirse Ronan), adolescente solitaria che vive con il padre Erik (Eric Bana) in una foresta finlandese. Il suo unico svago sono un’enciclopedia e un libro di fiabe dei fratelli Grimm; non ha mai conosciuto la civiltà, eppure sa tutto di essa, grazie alla lettura e ai racconti paterni. Ma l’ansia di viaggiare e scoprire il mondo che caratterizza la sua età sta per spingerla a cambiare vita. Hanna non è però una ragazza come le altre: è stata addestrata per uccidere. Suo padre è infatti un ex agente della CIA e fuori dal tepore della loro spartana capanna, li attende la spietata Marissa Wiegel (Cate Blanchett), ex collega di Erik nonché responsabile della morte della madre della ragazzina.

La metafora della cagnetta Laika, destinata dall’URSS a un viaggio senza ritorno nel nome del progresso scientifico, calza a pennello per questa storia che recupera suggestioni da pellicole come Il ragazzo selvaggio di Truffaut così come anche da Nikita di Luc Besson (e relativo remake made in Usa), mescolando continuamente cultura “alta” e “pop”, velleità artistiche con intuizioni da puro entertainment. Gli sviluppi narrativi sono infiniti, i viaggi che padre e figlia, una volta separati, si trovano a intraprendere si fanno ampiamente beffe di distanze geografiche e capacità umane (si veda Bana che nuota dalla Finlandia alla Germania, per dirne una). Le prodezze della coppia padre-figlia non hanno infatti rivali e di quando in quando viene da chiedersi se i due si stiamo allenando per ottenere un qualche astruso guinness dei primati o gareggino l’uno contro l’altra in un pentatlon dalle discipline a noi ancora sconosciute. La ragazza selvaggia, interpretata dall’ottima Saoirse Ronan, è di certo un personaggio che suscita, nonostante le asperità del carattere, l’identificazione spettatoriale, ma il suo citazionismo enciclopedico finisce presto per divenire risibile. Come quando alle prese con l’interruttore della luce, la nostra Hanna ci tiene a ricordarci chi è stato l’inventore dell’elettricità (compresa la diatriba tra Edison e Franklyn). Una galleria di improbabili personaggi colora poi il tutto, tra gli altri abbiamo dei naziskin che riescono a passare inosservati in Marocco e un diabolico cattivo teutonico che sembra uscito da Arancia Meccanica di Kubrick, fischietta come il mostro di Dusseldorf e sfoggia istinti omicidi gratuiti alla Funny Games. Il citazionismo è dunque sfrenato per un film dall’estetica derivativa e poco ben organizzata. Tra night club in cui si esibiscono una biancaneve ermafrodita e un nano, casette-giostra dei Fratelli Grimm e bunker della CIA che sbucano dritti nel deserto marocchino, l’utilizzo delle location è magistrale, ma non per questo efficace. Il film soffre infatti di eccessi estetizzanti, impera ovunque un’elaborazione stilistica che di fatto finisce per rallentare un plot thriller che di suo funzionerebbe benissimo. La tensione infatti c’è, ma nascosta tra mille trovate visive, colpi di scena superflui, apparizioni di personaggi sopra le righe, giochi d’ombra e di luci che deviano la nostra attenzione da quanto sta accadendo e dunque in ultima istanza dal film stesso. Joe Wright, già regista di un’ottima versione di Orgoglio e pregiudizio, del rutilante melò Espiazione e del buonista Il solista, ha davvero del talento, ma lo svilisce esibendosi in virtuosismi sterili e controproducenti. L’effetto videoclip è dunque garantito (si veda la lunga e inane sequenza della fuga di Hanna dal bunker) e rinfocolato dalla pervasiva, ma eccellente, colonna sonora firmata dai Chemical Brothers. Se questo fosse il film di un esordiente il nostro plauso sarebbe senza remore, ma dalla terza prova registica di Wright era lecito aspettarsi qualcosa di più. Ciò non toglie che Hanna si candida fin da ora a “cult movie” di questi ultimi anni, con annessi tutti i pregi e i difetti del caso.

DARIA POMPONIO

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