Il cinema autoriflessivo

29/08/08 - Takeshi Kitano e Abbas Kiarostami: due giganti del cinema d`autore...

Speciale Venezia 65

(dalla nostra inviata Laura Croce)

KITANO, KIAROSTAMI E IL CINEMA AUTORIFLESSIVO

29/08/08 – Takeshi Kitano e Abbas Kiarostami: due giganti del cinema d`autore, che sembrano avere davvero poco in comune se non l`aver innalzato immediatamente il tiro della 65esima Mostra del Cinema di Venezia. I loro film “Achille e la tartaruga” e “Shirin” sono stati presentati ieri nell`ambito di due sezioni diverse, rispettivamente in concorso e fuori concorso, ma sono entrambi esempi di una riflessione di gran pregio sull`arte e su ciò che la rende un elemento insostituibile, a volte perfino ingombrante, dell`esperienza umana.

La ricerca di Beat Takeshi sull`atto creativo alla base della nascita di un film, ormai, è avviata da tempo. Il suo ultimo lavoro, presentato in questa edizione della kermesse veneziana, si propone infatti come ideale chiusura di una trilogia “io centrica”, dedicata da Kitano alla difficoltà di dar vita a un`opera cinematografica, magari di successo e di senso vagamente compiuto. Al contrario del fallimentare esperimento tentato con “Kantoku Banzai!”, stavolta il regista giapponese è riuscito a incanalare la sua straboccante vena di assurdità e autoironia in una pseudo biografia dai tratti al contempo esilaranti ed amari. Sfortunato protagonista  di questa minisaga personale è Machisu, vittima impotente di una passione totalizzante verso la pittura, “indottagli” sin da bambino e fonte inesauribile di fallimenti e delusioni. Durante la sua epopea senza speranza, l`aspirante artista dovrà confrontarsi con tutti quegli ostacoli che si frappongono sulla via di ogni creativo alla sfiancante ricerca di fama, come l`impossibilità di ottenere l`apprezzamento degli altri, lo scarso consenso sociale diffuso intorno alla figura del pittore, la difficoltà di trovare uno stile proprio, abbastanza originale per distaccarsi dai maestri ma non troppo lontano dai gusti del mercato. A tutto ciò fa da perno la fatidica domanda “cos`è l`Arte”: è forse un`immagine di liberazione inquadrata dal caos, o magari  la fusione – anche violenta, traumatica – tra corpo e opera? Alla questione, naturalmente, è impossibile trovare una soluzione definitiva, ma il concetto assume senza dubbio le fattezze di una rincorsa spasmodica, dai tratti tanto epici quanto ridicoli, nel suo tentativo utopico di raggiungere un obiettivo mai cristallizzabile, proprio come l`Achille del paradosso di Zenone (da cui il titolo), condannato al perenne inseguimento di una tartaruga.

Machiu (interpretato nella sua fase adulta dallo stesso Kitano) è ritratto dapprima come un bambino dalla fantasia allegra e spumeggiante: circondato da una realtà pallida e glaciale, dove perfino i colori caldi appaiono desaturati fino al grigiore, il piccolo artista tenta di restituire vivacità al suo piccolo mondo attraverso la pittura. Nonostante gli sforzi, tuttavia, un destino funesto fa in modo che, per molti anni, le uniche tinte forti della sua esistenza siano rappresentate dal rosso sangue che scorre intorno alla morte dei suoi cari. La ricerca del colore diventa così una necessità impellente, oppressiva, capace di spingersi oltre ogni ragionevole limite, compresi la morte e l`amore. L`arte assorbe il suo creatore, come la stanza dalle pareti scarlatte in cui il regista/Machiu si rinchiude in dannato isolamento, alla disperata ricerca di un`idea che sia all`altezza di questo nume beffardo e imprevedibile.

Se il film di Kitano sembra particolarmente autoreferenziale e di forte impronta metaforica, lo “Shirin” di Abbas spinge la riflessione sulla settima arte a vette anche più alte e inaudite. Obiettivo della sua ultima opera, infatti, è l`esplorazione del “fuori campo” per eccellenza: l`evocabile ma non-rappresentabile sala cinematografica, dove lo sguardo dello spettatore si unisce a quello filmico, dando vita a quel sogno sognato da tanti, comunemente noto come cinema. Il regista iraniano costruisce un`ora e mezza di pellicola solo sui primi piani fissi del volto di oltre cento donne, mostrate nell`atto di guardare l`ipotetico adattamento di un classico epico persiano. Così facendo, Kiarostami osa mettere in scena il presupposto stesso della finzione, vale a dire lo spettatore e il patto da lui inconsapevolmente compiuto ogni volta che si rende “complice” di un`opera cinematografica. Un esperimento coraggioso, ma di sicuro destinato a entrare nella storia del grande schermo e del Lido, che anche quest`anno conferma il suo debole per il cinema autoriflessivo: strumento unico ed estremamente godibile per sondare quel fenomeno sfuggente e tanto fascinoso chiamato arte.