Il dramma italiano

01/09/08 - Giunti al quinto giorno e al secondo film italiano in concorso, inizia a delinearsi con...

Speciale Venezia 65

(Dalla nostra inviata Caterina Gangemi)

01/09/08 – Giunti al quinto giorno e al secondo film italiano in concorso, inizia a delinearsi con maggior spessore il sospetto che, salvo successive smentite, la stampa tedesca abbia avuto proprio ragione nel suo “j`accuse” contro la folta e immotivata rappresentanza del nostro cinema alla Mostra. Se Ozpetek, si è detto, è riuscito infatti a divertire oltre ogni sua aspettativa, la vasta platea della stampa, con un lavoretto pretenzioso e serioso, la cui fotografia livida e contrastata non basta a camuffare efficacemente le velleità da Almodovar de` noantri. Destreggiandosi all`interno di un telefonatissimo dramma familiare, il regista italo-turco riesce a inanellare tutto il suo repertorio più trito di luoghi comuni e ruffianate radical-chic: dagli immancabili interni da Roma-bene (ferocemente colto da Stefano Disegni nella sua divertentissima striscia su “Ciak”) , che, nel mondo fatato di Ozpetek possono normalmente ospitare un poliziotto e una precaria con due figli, al risibile adolescente alto-borghese, artistoide sofferto e tormentato che dipinge sul lungotevere, lotta contro il sistema, come ogni alternativo che si rispetti, ma non disdegna i soldini del papà senatore che gli permettono l`appartamento con terrazza agli ex-mercati generali di Ostiense (non sia mai che non si veda il gazometro), e soprattutto, ama in segreto la giovanissima e infelice moglie del genitore, alla quale si dichiara con un mastodontico trittico in stile pop-art, indicibilmente pacchiano peraltro, in una delle scene più eclatantemente imbarazzanti del film. Duole poi sprecare parole per le interpretazioni, attestabili su un livello che una volta si sarebbe detto “filodrammatico”, con un Mastandrea, volutamente sottotono e monocorde, il solito bambino simpatico per compiacere gli spettatori sentimentali, e l`inutile Guerritore, la cui presenza, a voler essere maligni, sembrerebbe motivata solo dal coinvolgimento della Rai nella produzione.

Ma tant`è. Visto che Avati, tanto osannato per la sua abilità con gli attori, con “Il papà di Giovanna” è riuscito a fare perfino di peggio, prioiettandoci in una recita scolastica ad alto budget, con performance dilettantesche e svogliate (ma per Alba Rorwacher era così difficile frequentare un corso di dizione, quantomeno per un minimo rispetto di una certa coerenza, che vuole che a Bologna non si parli in romanesco?) dove non basta il buon Silvio Orlando ad alzare il livello medio. Certo, c`è da dire che sceneggiatura e regia non sono state certo di aiuto: improponibile come giallo o thriller, vista la totale assenza di tensione o suspence (e sì che Avati in ciò ha dato grandi prove di maestria in passato); poco credibile sul piano drammatico per la faciloneria con la quale vengono affrontati temi di un certo peso. Peccato, per la valida ricostruzione della Bologna fascista e alcuni momenti di buona regia nelle prime riprese al manicomio criminale, che per un attimo ci hanno riportati al miglior Avati, cantore del sordido e del perturbante de “La casa dalle finestre che ridono”. Insomma, non resta che attendere con impazienza il termine dell`evento, nella vana speranza che un exploit di Bechis o Corsicato possa finalmente spazzar via quell`aura mediocritas che continua ad avvolgere il Lido.