Il pasticciere

L'opera seconda di Luigi Sardiello vede protagonista Antonio Catania nei panni di un pasticciere che si ritrova coinvolto, suo malgrado, in un grosso guaio. Volenteroso tentativo di noir surreale, il film però procede in modo confuso e quasi inerte, statico e senza ritmo, per colpa di una sceneggiatura e di una regia non all'altezza della situazione.

Non vi è nulla da obiettare sulla necessità, per il nostro cinema, di provare delle strade diverse rispetto a quelle consuete, strade che normalmente conducono al macrogenere italiano per eccellenza, la commedia. Appare perciò giusto, doveroso e necessario il tentativo di Luigi Sardiello che con Il pasticciere – sua opera seconda dopo Il piede di Dio (2009) – approccia il noir surreale e grottesco, immettendo in una trama da film giallo la vicenda di un pasticciere inesperto della vita che si trova coinvolto in un intrigo con tanto di omicidi, donne fatali e crudeli fuorilegge.
Allo stesso tempo però appare giusto, doveroso e necessario segnalare quando il tentativo non riesce: Il pasticciere è infatti un film confuso e slabbrato che procede in modo inerte e senza ritmo, con una regia estremamente statica e con una sceneggiatura – anch’essa opera di Sardiello – che innesca una serie di meccanismi senza saperli portare fino in fondo.

Achille Franzi, il mastro dolciaio interpretato da Antonio Catania, è un uomo senza arte – se non quella dei dolciumi – né parte che viene costretto a sconfinare in Croazia per aiutare un losco figuro a seppellire un cadavere e da lì in poi dovrà affrontare tutta una serie di situazioni sempre più pericolose. Con una trama così, che poteva avere anche il suo interesse e una sua precipua originalità – una sorta di Oltre il giardino dolce-amaro con un meccanismo noir – Sardiello avrebbe potuto sviluppare un’ampia serie di meccaniche, che restano però tutte sulla carta. La prima, e forse la più eclatante tra le occasioni mancate, è quella dell’azione. Un noir con delle morti, degli ammazzamenti e degli inseguimenti deve saper mettere in scena e rendere credibile quanto accade. Invece Sardiello non sembra avere gli strumenti giusti per rendere efficaci sequenze siffatte: filma una morte accidentale facendo delle ellissi eccessive al montaggio e finendo per togliere qualsiasi movimento alla scena; riprende un omicidio al ralenty senza provare a drammatizzare l’azione ma, anzi, estenuandola; restituisce goffamente una fuga a piedi del personaggio di Antonio Catania, ecc.

Un noir senza azione – o con dell’action mal girato come è questo il caso – allora deve almeno puntare sui dialoghi, che siano iconici, taglienti, ironici oppure, al contrario, che siano riflessivi ed esistenziali. Sardiello prova la seconda strada, ma infarcisce le conversazioni dei suoi personaggi di ripetizioni estenuanti incapaci di assurgere a metafora. Le considerazioni del pasticciere, con ricette e quant’altro, infatti non riescono mai a “farsi discorso”, come invece accade per il giardinaggio in Oltre il giardino, ma appaiono piuttosto un modo per rallentare ancora di più le situazioni; basti pensare in tal senso alla gag, ripetuta fino allo stremo, del personaggio di Catania che cita, sempre a sproposito, suo padre. Inoltre, preferendo la soluzione dei dialoghi riflessivi al botta e risposta, Sardiello annacqua tutte le sue sequenze con personaggi che, invece di interagire tra loro, monologano in cerca di chissà quale senso della vita da scoprire e/o ritrovare.

L’assoluta mancanza di ritmo fa sì anche che si noti ancora di più la povertà produttiva del film, povertà che una regia più esperta avrebbe forse saputo nascondere. Si pensi alla sequenza in cui il personaggio di Antonio Catania dovrebbe prendere l’aereo: ebbene, con ogni evidenza, la scena invece di essere ambientata in un aeroporto è stata girata in un centro commerciale! E non è l’unica situazione decisamente straniante: lo stesso commissariato tutto sembra tranne che una centrale di polizia.
In un contesto siffatto, purtroppo, non aiuta neppure la recitazione. Duole dirlo, ma Catania, attore sempre apprezzabile, stavolta sembra rinchiuso in una monotonia espressiva che, se è figlia dell’ingenua bontà del personaggio, non evolve però neppure nel momento in cui il nostro pasticciere decide di immergersi nel cosiddetto lato oscuro. L’unico che forse si salva è Emilio Solfrizzi, probabilmente perché, rispetto ai suoi colleghi, è in scena soprattutto con la voce, quale memoria ossessiva e in flashback del personaggio del padre del pasticciere.
Ma qualcosa di positivo purtroppo è davvero difficile da trovare in un film che, ancora una volta, deve farci disperare sulle possibilità del nostro cinema di emendarsi, almeno in parte, dal suo destino di eterna commedia.

Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi