Il Ray incompiuto al Tff

23/11/09 - Grazie alla preziosa retrospettiva su Nicholas Ray è stato finalmente possibile vedere...

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Presentato al 27° Torino Film festival l’incompiuto di Nicholas Ray, “We can’t go home again”, inserito nella retrospettiva dedicata all’autore e accompagnata nella città piemontese dalla moglie del regista, Susan Ray

(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)

we can't go home again23/11/09 – Grazie alla preziosa retrospettiva su Nicholas Ray è stato finalmente possibile vedere l’ultimo film del cineasta americano morto nel 1979, quel “We Can’t Go Home Again” che Ray diresse a basso costo dalla fine del ’69 con i suoi studenti, lavorandoci al montaggio per diversi anni (fino al ’76) e lasciandolo alla fine incompiuto, soprattutto per quel che riguarda il perfezionamento della colonna audio.
Girato a immagine multipla, come alcuni film di Godard di quegli anni, quali “Numéro deux” e “Ici et ailleurs” (e in proposito, nell’intervista che ci ha rilasciato, Susan Ray dà per certo che sia stato Godard a prendere ispirazione da Ray, non il contrario; il che è praticamente accertato dalle date dei due film del regista francese che sono successive a “We Can’t Go Home Again”), l’ultimo lavoro di Ray rientra a pieno titolo nell’ambito del cinema sperimentale, senza però abbandonare del tutto una concezione narrativa. In tal senso ci pare evidente che, nella parabola del regista diventato insegnante universitario e mentore di un gruppetto di studenti e poi pian piano messo in discussione da loro fino al suo suicidio rituale cui nessuno si oppone, vi si debba leggere un apologo ironico e crudele sulla morte dell’autorità, la cosiddetta morte del Padre che è tratto fondante del movimento sessantottino.

Infatti “We Can’t Go Home Again” nasce da quella temperie culturale e inizia proprio con la testimonianza di alcuni ragazzi contestatari, messi sotto processo per aver fatto irruzione alla convention democratica del ’68 a Chicago. Ciò che lascia abbagliati è il modo in cui Ray sia riuscito a lavorare sia sull’immagine che sul racconto, senza mai perdere né l’uno né l’altro: le sue inquadrature oscillano continuamente dal figurativo all’astratto (un astrattismo da far invidia a ben più celebrati maestri del cinema d’avanguardia), mentre il racconto è perennemente rilanciato da variazioni o da improvvisi e sorprendenti scarti di punti di vista. E naturalmente in questo vi si può leggere con evidenza il superamento della centralità della visione e dello sguardo, concetto che all’inizio degli anni Settanta (e sulla scia sempre del ’68) cominciava ad essere chiaro ad alcuni cineasti e teorici del cinema. Perciò ci pare che “We Can’t Go Home Again” sia da considerarsi come una riflessione indispensabile sulla concezione dell’immagine all’interno della società dello spettacolo pre-contemporanea (quella che poi ha generato il mare magnum della globalizzazione), da accostarsi a un altro celebre incompiuto, tra l’altro coevo al film di Ray: “The Other Side of the Wind” di Orson Welles in cui si raccontava la morte di un regista macho della vecchia Hollywood attraverso una pressoché infinita moltiplicazione di supporti di registrazione.

Susan Ray sta cercando di realizzare un DVD per poter far circolare finalmente il film e speriamo proprio che ci riesca.