Il villaggio di cartone

06/09/11 - Dopo l'annunciato ritiro dal cinema di fiction, Ermanno Olmi ci ripensa con un apologo sulla fede, che non convince fino in fondo. Fuori concorso.

Dal nostro inviato MASSIMILIANO SCHIAVONI

Ritorna Ermanno Olmi, e ritorna al cinema di fiction malgrado le sue dichiarazioni dopo l’uscita di Centochiodi, ovvero la rinuncia al film tradizionalmente narrativo per dedicarsi totalmente al documentario. L’occasione è Il villaggio di cartone, passato oggi a Venezia fuori concorso (Marco Müller l’avrebbe voluto come quarto italiano in concorso, ma Olmi ha rifiutato), un apologo allegorico su fede e contemporaneità, su riscoperta delle radici del cristianesimo e paura dell’altro. L’intenzione appare un po’ quella del film-saggio, il film da camera che ha tentato alcuni dei nostri Maestri italiani negli anni più maturi (pur su coordinate assai lontane, viene in mente Prova d’orchestra di Federico Fellini per il tipo d’impianto produttivo e per la sfida estetica). Breve, stringato, costruito su un assoluto principio di economia espressiva, in realtà dal film di Olmi traspare forse un eccesso di consapevolezza del proprio discorso. Malgrado la scelta del racconto allegorico, sospeso e tendente all’astratto, il progetto a monte è fin troppo dichiarato, esplicito, in ultima analisi didascalico. Confrontandosi con le attuali perplessità che le istituzioni della Chiesa suscitano anche nei fedeli più devoti, Olmi si pone al racconto di un sacerdote a cui viene sottratto il proprio luogo di culto. E, confessando finalmente a se stesso le profonde crepe che lo consumano da tempo riguardo alla propria fede, riscopre i valori più archetipici del messaggio cristiano, spesso dimenticati dalla Chiesa stessa, tramite l’incontro con un gruppo di clandestini islamici che si rifugiano presso di lui.

Scopertamente ecumenico nelle intenzioni, Il villaggio di cartone lascia perplessi non tanto per i suoi argomenti, quanto per i mezzi adottati, a cominciare dai dialoghi. Nella natura stessa del racconto-apologo è alto il rischio della classificazione per categorie macroscopiche; Olmi cade un po’ in questa trappola, e mette dentro tutto quel che negli ultimi anni sommuove principalmente lo scenario sociale italiano sotto il profilo della fede religiosa. Scontro tra fede e scienza (il sacerdote e il dottore), tra islamismo “buono” e islamismo “cattivo” (i moderati e i fondamentalisti), tra cattolicesimo chiuso su se stesso e apertura all’esterno, alla carità e all’accoglienza (il sacerdote, prima e dopo). Ciò prende forma tramite dialoghi “eccessivi”, scolpiti nella pietra, spesso didascalici fino allo spasimo. Resta, questo sì, la consueta cura formale che sempre ha caratterizzato il cinema di Olmi. Ma non basta a salvare un film troppo consapevole, frutto di troppe idee precostituite, che pur tramite strumenti mediati e non corrivi finisce per dire al pubblico solo ciò che vuol sentirsi dire. “Gesù Cristo è un simbolo, ma il simbolo dev’essere carne – ha detto Olmi in conferenza stampa – Gesù si è sacrificato anni fa. Adesso dobbiamo inginocchiarci a nuove incarnazioni del simbolo. Penso soprattutto ai tanti giovani di oggi senza futuro”. Parole sagge, che innervano visibilmente il film, nato da lunghe discussioni preliminari del regista con Claudio Magris e monsignor Gianfranco Ravasi. Ma, per l’appunto, parole che altrettanto soffocano il film. Per l’urgenza del dire, dello spiegare, dell’esser chiari a ogni costo.

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