KFF, Acacia e The Scam

19/03/10 - Dopo la partecipazione in prima persona nella giornata di mercoledì, accompagnato dal...

KoreaFilmFest 2010: bis di Park Ki-hyung con “Acacia” in K-Horror, e “piccoli Soderbergh/Ritchie crescono” in Orizzonti coreani con “The Scam” di Lee Ho-jae

(dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)

acacia19/03/10 – Dopo la partecipazione in prima persona nella giornata di mercoledì, accompagnato dal padrino d’eccezione Dario Argento alla proiezione della sua opera prima “Whispering Corridors”, Park Ki-hyung ha ricevuto un ulteriore tributo dal KoreaFilmFest di Firenze nel pomeriggio di oggi, con la proiezione di “Acacia”, suo terzo film del 2003. Ancora horror, ancora melodramma oscillante tra orrore reale e orrore psichico, ancora senso di colpa e intollerabili espiazioni. Quest’ultimo, pare innervare il cinema horror di Park, ed è individuabile come trait d’union di molto cinema coreano horror in generale: la sofferenza, il tormento, e infine l’impossibilità dell’espiazione, che sfocia spesso nella rimozione. In tal senso, l’horror coreano può essere definito, con ampi margini di approssimazione, “horror intrapsichico”, ovvero la suspense, la tensione, gli spaventi e gli scoppi di violenza non derivano mai da un conflitto esteriore, né da una vera indagine, né da una classica struttura whodunit (alla base, invece, di molto horror italiano, che abbina sangue e grand-guignol a una solida, anche se spesso “tradita”, costruzione da giallo), bensì da un conflitto tutto interiore ai personaggi, di cui l’orrore diviene rappresentazione, e il colpo di scena finale, la risoluzione del mistero, è sempre affidata a un ricongiungimento psichico, a una sorta di agnizione dell’io di fronte a se stesso.

Anche in “Acacia”, come spesso nell’horror coreano, la narrazione si radica su topoi classici ed elementari; stavolta tocca al convenzionale bambino adottivo, inquietante, dalla psiche morbosa, che già si è manifestato in molto cinema occidentale in chiave demoniaca (fin troppo banale ricordare Il presagio di Richard Donner). Park, tuttavia, declina tale tendenza secondo una lettura del tutto personale, inserendo il bambino in un contesto di nostalgie paniche, in cui la natura (l’albero di acacia in cui il bambino identifica la madre naturale) assume tratti minacciosi, protettivi, vendicativi, secondo una logica da orrori primordiali. Il crescendo melodrammatico, col rapporto di coppia che si deteriora a seguito della scomparsa del bambino, convince molto meno, ma è riscattato (e motivato) dallo scioglimento, in cui l’orrore a cui abbiamo assistito si riconverte, per l’appunto, in rimozione e rifiuto d’espiazione. Il finale, in superficie, ricorda molto cinema occidentale basato sul “ribaltamento percettivo”, ovvero sul colpo di scena che costringe a rileggere sotto un’altra ottica tutto ciò che si è visto fino a quel momento. Ma a differenza dei suoi colleghi occidentali, Park non utilizza tale espediente in modo gratuito, bensì lo piega a un progetto narrativo ben preciso, trasformandolo in elemento necessario e significante. Solo tramite la rivelazione finale si comprende il travaglio psichico della madre, al quale, da metà del film in poi, abbiamo (in)consapevolmente assistito. “Acacia” si regge su una fitta trama di fantasmi psichici universali: l’amore egoistico madre-figlio, che può essere dato e tolto arbitrariamente, il terrore dell’abbandono, il rifiuto di sentimenti materni negativi, il terrore inconscio dell’irruzione nella propria vita di uno sconosciuto/conosciuto (il figlio, naturale o adottivo che sia) verso il quale si è legati da inestricabili vincoli di responsabilità. Cinema doloroso, che scava nel profondo dell’essere umano, che fa davvero paura, grazie anche a un apparato tecnico di primissimo ordine, in netto progresso rispetto ai tratti spavaldamente b-movie di “Whispering Corridors” (basti vedere nel finale l’uso prezioso dei contrasti fotografici, tra colore e bianco-e-nero sgranato, e bianco-e-nero attraversato da tenui riflessi cromatici).

Per la sezione di concorso Orizzonti coreani, invece, è stato proposto “The Scam”, opera prima di Lee Ho-jae, commedia criminale che riecheggia scopertamente modelli occidentali. Racconto di una truffa in borsa, Lee evoca da vicino, su un piano stilistico, molto cinema di Steven Soderbergh, intrecciato però con la brillantezza e la cialtronesca ribalderia di Guy Ritchie. I dialoghi e i personaggi, infatti, sono caratterizzati da un grottesco talvolta survoltato, talvolta glaciale, con annesse esplosioni di violenza, che richiama l’universo schizoide (e molto autoreferenziale) di “Lock&Stock” e “Snatch”. Lee ha probabilmente commesso un errore a monte, e cioè aver scelto come campo d’azione dei suoi personaggi il mondo della borsa, tra azioni manipolate, che scendono, salgono, che devono essere comprate, vendute, poi ricomprate… Un universo troppo labirintico per prestarsi ai ritmi incalzanti di una commedia d’azione. Tra le intenzioni dell’autore è rintracciabile anche l’illustrazione del rampantismo e del benessere, totalmente superficiali, che hanno invaso la Corea del Sud sull’onda di uno sfrenato capitalismo, e che hanno creato profondi divari sociali nel tessuto nazionale. Ma la commedia sociale è totalmente annientata dalla struttura di genere, fondata su un racconto macchinoso, complicato, talvolta imperscrutabile, e soprattutto ripetitivo fino allo spasimo, condannato a un’episodicità faticosamente dissimulata. E, in ultima analisi, non risulta nemmeno troppo divertente.

Il cinema coreano ci piace di più, insomma, quando cerca cifre proprie, o perlomeno quando adotta convenzioni di genere non autoctone ma corroborate da una vera lettura personale. Da un’ottica occidentale, molto cinema horror coreano, ad esempio, può essere definito “postmoderno”, ma ha spesso il grande pregio della vera appropriazione e rielaborazione personale del modello.