Le maschere del reale

30/08/08 - àˆ difficile stabilire quale sia la forma perfetta del documentario. Il senso comune...

Speciale Venezia 65

Le maschere del reale (dalla nostra inviata Laura Croce)

30/08/08 – àˆ difficile stabilire quale sia la forma perfetta del documentario. Il senso comune lo lega all`idea dell`approfondimento, dello scavare dentro realtà poco note, o dimenticate, in modo da riportarle sulla superficie della frivola e incostante coscienza mediatica. Il problema, però, si infittisce quando si ragiona sul metodo: è giusto aspettarsi un`obiettività da reporter, una distanza scientifica tra autore e oggetto della sua ricerca, oppure è lecito che il documentario, in quanto genere cinematografico, attinga all`enorme potere fascinatorio e timico della settima arte? Qual è l`approccio da assumere quando la realtà da raccontare è vicinissima, o addirittura quella a cui si appartiene fin nelle viscere, tanto da rendere impensabile di distaccarla dalla mente e dal cuore?

Presentato nella sezione “Orizzonti” della 65esima Mostra del Cinema di Venezia, “Z32” di Avi Mograbi è un interessante esempio di come queste varie vocazioni possano essere tenute insieme, di sicuro con qualche rischio ma anche con enorme originalità . Incentrato come altre opere del regista sul dramma del conflitto israelo-palestinese, questo documentario deve affrontare sin da subito il problema del punto di vista. Oltre a vertere su una ferita ancora aperta, la questione viene evocata attraverso un racconto molto particolare, cioè quello di un giovane ex-soldato, fautore di una rappresaglia ordinata dall`esercito israeliano contro alcuni innocenti poliziotti palestinesi. Trattandosi di una vicenda personale, è già difficile aprire la prospettiva dell`indagine, col rischio di imboccare un`alquanto dubbia strada unidirezionale. La presupposta credibilità del documentario, inoltre, viene minata da un`altra turbativa: il testimone dell`aggressione vuole comparire a volto coperto, rendendo molto meno efficace la tipica soluzione dell`intervista frontale.

Messo davanti a queste difficoltà , Mograbi non si perde d`animo, rimescolando gli strumenti classici del documentario per ri-strutturarlo non sul suo presunto statuto di specchio della realtà , bensì su quello che verrebbe generalmente considerato come il suo backstage. Già a partire dalle sequenze d`apertura vengono mostrati con audacia i meccanismi di messa in scena del documentario; meccanismi che di solito sono taciuti proprio per non disturbare quell`altissimo grado di referenzialità proprio dei prodotti di questo genere cinematografico. Alla credibilità si sostituisce la sincerità , che scaturisce sia dallo svelamento totale del trucco filmico, sia dall`apertura del punto di vista. All`ex-soldato è difatti affiancata la sua ragazza, mentre entrambi vengono lasciati liberi di esprimersi attraverso una dialettica non precostituita in un copione, che comprende la ripetuta confessione di non aver voglia di prendere parte al documentario. I tagli di regia sono espliciti, mentre i dialoghi assumono un impianto da reality show. I protagonisti, però, sono ancora entità a volto coperto, poco adatte a suscitare fiducia. àˆ qui che Mograbi ha la prima intuizione geniale. Se, all`inizio, le teste dei ragazzi sono del tutto offuscate attraverso un trucco digitale, queste macchie informi e inespressive vengono pian paino modellate sui tratti somatici di base (occhi, bocca, fronte), fino a diventare una sottile patina sfumata che aderisce ai primi piani come una sorta di maschera. E le maschere, si sa, servono a celare la vera identità delle persone, ma non annullano la loro credibilità . Anzi, proprio in quanto anticamera di realtà misteriose e inconfessabili, le maschere aggiungono un surplus di fascino, curiosità e suggestione, aumentando esponenzialmente l`interesse per quello che i personaggi sveleranno di sè attraverso il proprio racconto.

Archiviata la questione testimoni, rimane un problema: l`attendibilità di un documentarista immerso fino al collo nella realtà che pretende di “smascherare” al pubblico. Mograbi sceglie di nuovo di essere sincero fino all`estremo. Non solo scende in campo di fronte allo spettatore, proponendosi come commentatore delle testimonianze dei ragazzi, ma lo fa in modo bizzarro e radicale: prima di tutto, ci svela di averli filmati nel proprio salotto di casa e, in secondo luogo, si mette niente di meno che a cantare le sue impressioni con l`appoggio di una band, inserendo stacchi canori che sanno addirittura di musical. L`effetto iniziale è molto straniante e dirompente, ma l`intuizione di Mograbi si rivela presto adeguata. Attraverso i testi delle sue liriche, il regista confessa il proprio attaccamento inestirpabile al tema che sta raccontando, proponendosi egli stesso come testimone di un dramma che, lungi dall`essere particolaristico, riguarda in toto l`intera popolazione israeliana. Qualsiasi tentativo di “scomparire” e di rendere il documentario asettico e impersonale dunque, sarebbe un`ipocrisia, o quanto meno una maschera molto più ingombrante di quelle indossate dai due ragazzi. La soluzione è di sicuro eccentrica, ma riesce comunque a reggere l`impalcatura di un documentario non solo credibile e intenso, ma anche capace di fornire un punto di vista diverso sulla problematica trattata e – molto più in generale – sul contributo che il cinema può dare al documentario nell`epoca dell`imperialismo televisivo. Mograbi entra così a pieno titolo nella lista degli autori che, in questa edizione della rassegna veneziana, si cimenta con la sperimentalismo e la dissacrazione degli stilemi classici del linguaggio cinematografico, dando prova di gran mestiere e di irresistibile sensibilità .